22 marzo 2007

Intervista al narratore potentino Claudio Elliott

[intervista -3]
Claudio Elliott ha cominciato a scrivere romanzi per ragazzi sei anni fa e da allora ha continuato a raccontare storie che sono state pubblicate da importanti case editrici nazionali e che hanno appasionato i giovani lettori di tutta Italia. Proprio in questi giorni è uscito un suo nuovo libro "L’ultimo canto del Faraone", il sesto romanzo della serie di Lara Bettini. Tra avventure, fantasia e viaggi nel passato eccovi un’intervista del narratore potentino in esclusiva per LucaniArt.
MPC- Quando hai cominciato scrivere libri per ragazzi e come è cresciuta nel tempo questa tua passione?
CE- Ho iniziato scrivendo un romanzo per un concorso, di cui a scuola vidi il bando. In quei giorni, sei anni fa, mia figlia stava giocando a Tomb raider, la cui eroina è Lara Croft. Fu lo spunto del testo che scrissi per il concorso che poi non ho vinto. Però ormai il romanzo (Game over) era stato scritto, e quindi lo spedii a qualche editore importante, il che era una bella presunzione. Ma ben ripagata: dopo pochi mesi ricevetti una telefonata dalla Le Monnier, che lo accettava. Anzi, l’editor mi sollecitò a scriverne un altro, così nello stesso anno – 2001 – comparvero sia Game over che Le due vite di Aya, libri iniziali della serie con protagonista Lara Bettini. Ancora oggi, a distanza di sei anni, hanno lettori affezionati in tante scuole italiane.

MPC- Sei uno scrittore molto prolifico, hai pubblicato per svariate case editrici decine di romanzi per ragazzi, da cosa traggono spunto le tue storie?
CE- Esagerati! Decine! Una decina sì. Proprio in questi giorni è uscito il sesto romanzo della successione di Lara Bettini (iniziata con Game over), il che vuol dire una media di un romanzo l’anno. Gli altri libri, tra cui Birillo, che sta avendo un certo successo nelle medie e nelle elementari, nascono sempre da piccoli episodi, idee che mi tarlano la testa per giorni, spesso mesi. La coincidenza di tempo e spazio (e quindi i collegamenti con periodi storici per me affascinanti) sono poi il collante di queste idee. Gli aztechi, Giovanna d’Arco, le streghe, Tutankhamon ecc. sono argomenti che mi assicurano lettori, e io scrivo per essere letto. Il che sembra lapalissiano. Ma conosco scrittori che scrivono solo per sé stessi.
Il fatto di avere lettori, con cui mi incontro spesso, che sono incuriositi dalle vicende e dalle trame e che chiedono un’altra avventura di Lara Bettini, e magari mi danno anche lo spunto, è un incoraggiamento.
Sono un narratore, alla fine, più che uno scrittore, per cui sto attento che la trama invischi il lettore e magari sono meno accorto alla scrittura. Se fosse il contrario, sono convinto che non avrei lettori: starei così attento alla prosa letteraria che perderei di vista la trama. Invece i ragazzi si acchiappano con quest’ultima, e piano piano diventano lettori, e passano poi ad altri libri, ad altre storie. Agli scrittori.

MPC- Quasi tutti i tuoi romanzi hanno una trama fantastico avventurosa. Come si coniuga questo aspetto con il “viaggio nel passato delle antiche civiltà” che spesso caratterizza i tuoi lavori più recenti?
CE- Parlavo prima dei periodi affascinanti della storia, quelli che da piccolo mi colpirono. Ecco: ora li utilizzo per questi viaggi di Lara Bettini nel passato o dei personaggi storici nel presente (come il recente L’ultimo canto del Faraone). Non perdo tempo a descrivere le civiltà antiche, cosa che non saprei fare e che i ragazzi non gradirebbero. Però calo i lettori in quelle epoche, li faccio camminare per le strade della Firenze dell’Inquisizione (Quattro parole dal passato), o li faccio partecipare alla caccia del brigante Michele che è alla ricerca di un tesoro, che poi verrà trovato a Lagopesole (Il tesoro dei briganti); oppure il lettore procede con Giovanna d’Arco nella enorme sala nel castello di Chinon senza sapere come sono le fattezze del Re (Giovanna d’Arco: il lupi e il vento).
Quindi è proprio la trama fantastica e avventurosa la base del viaggio in altre civiltà.

MPC- Un tuo recente libro Il barcone della speranza affronta invece una tematica sociale che è quella dell’emigrazione clandestina. Come mai questa nuova scelta?
CE-
È stata una sfida. Le edizioni Raffaello di Ancona, uno dei più diffusi in Italia specie con la collana Il mulino a vento, mi telefonarono e mi proposero di scrivere un libro per loro. Proposi un romanzo con una tematica fantastica, che stavo scrivendo in quel momento. La persona con cui parlavo mi disse che non andava bene: non sapevo scrivere altro? Magari una storia attuale, basata su una tematica sociale?
Ci pensai su per ben due secondi e mezzo; mi venne il tema e lo proposi. L’idea piacque. Ora dovevo scrivere il romanzo. Piacque anche quello. Ora è nelle librerie italiane.

MPC- I libri per ragazzi hanno sempre un valore pedagogico sotteso. Quale aspetto educativo ritorna con maggiore frequenza nei tuoi romanzi?
CE-
Nessuno. Scrivo per essere letto e basta. Valori e messaggi li lascio ad altri.

MPC- Quanto consideri importante l’aspetto ludico e giocoso della scrittura?
CE-
La scrittura è fatica. Stare ore e ore a battere i tasti del computer, dopo mesi di costruzione mentale, di ricerche in biblioteca, di appunti che spesso hanno la tendenza a nascondersi, è una gran bella fatica. Però è anche divertente (e qui sta il gioco), perché vedi che le idee sono diventate concrete, sono diventate parole, vedi che chi ti legge mentre lavori (amici, moglie, figli) si diverte a leggere quello che prima non c’era e ora c’è. Vedi i personaggi che, saltati fuori dalla tua testa, diventano reali, sono lì in carne e ossa, e ti parlano, e ti danno indicazioni.
Nei corsi di scrittura creativa, che svolgo spesso con Lorenza Colicigno, faccio notare ai ragazzi che la grammatica e la sintassi sono gabbie da cui si può uscire con la fantasia, volando sulle parole e spesso dentro le parole, e magari inventandone di nuove. E se qualcuno ha pensato a Gianni Rodari o a Piumini, beh, ecco: la strada è quella.

MPC- C’è qualcuno dei tuoi romanzi a cui sei particolarmente affezionato?
CE-
Come idea sono affezionato a Birillo, che ha un inizio (a detta di molti) clamoroso, e prosegue con continui rovesciamenti di prospettiva, ed ha uno stile leggero e svagato, apparentemente semplice. Come romanzo vero e proprio (Birillo è un libro-gioco) il mio preferito è Giovanna d’Arco: i lupi e il vento, ma anche L’ultimo canto del Faraone non mi dispiace del tutto: in ambedue questi romanzi le figure femminili sono forti e determinate, Giovanna d’Arco nel primo, la tenera moglie di Tutankhamon nel secondo.

MPC- E i tuoi prossimi progetti? Ti va di raccontarci qualcosa in anteprima?
CE- Ho da poco finito un romanzo che si svolge ai tempi di Lorenzo il Magnifico e che gira intorno a un misterioso manoscritto. I protagonisti non sono ragazzi (una volta tanto!), ma c’è un alchimista, uno studioso di grafologia, un priore, lo zar di Russia, il Papa, Lorenzo e Giuliano de’ Medici e il loro avversario Francesco Pazzi. Un romanzo che mi ha impegnato molto sia per le ricerche storiche sia per la stesura, che non è stata semplice. Ora è in mano a un importante editore.Sul piano della pura fantasia, l’anno prossimo dovrebbe vedere la luce un romanzo sulle strane vicende di un piccolo dinosauro che capita in una nostra cittadina, ai nostri tempi, e che viene trovato da un ragazzino. Torna il tema del tempo, che (ora che ci penso) sembra essere una mia ossessione. E pensare che non porto l’orologio!
by Maria Pina Ciancio

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11 marzo 2007

Le Falene poetiche di Nigro nel segno di De Martino

[percorsi -11]
Con Mosche in bottiglia, nel 1975, Leonardo Sinisgalli fissava nell'immagine della poesia-insetto un simbolo di straordinaria capacità semantica. Le sue mosche incarnavano le ambizioni della scienza e gli inganni della memoria. Le Falene (Aragno, pag. 147, euro 12) di Raffaele Nigro, che giungono in libreria esattamente dopo trent'anni dalle mosche sinisgalliane, chiudono il cerchio. Sono esseri dotati di una particolare leggerezza che li rende evanescenti come sogni e, anziché presentarsi in lingua italiana, hanno il passo cadenzato dell'idioma lucano: non quello del dialetto di Albino Pierro, in cui Gianfranco Contini intravedeva addirittura una parlata "neolatina", ma una cadenza appenninica; una parlata certo di consonanti un po' ruvide ma con le vocali che già si aprono alla pianura pugliese, proprio come i fiumi che nei romanzi di Nigro nascono dalle pendici dei monti e si volgono senza rimorso all'Adriatico. Anche le falene, come le mosche, rappresentano il riassunto di una intera esperienza letteraria (come non pensare alle "farfalle" di Montale?) e hanno i connotati degli «eroi omerici e ariosteschi», secondo un'efficace interpretazione cui fa cenno Andrea Di Consoli nella postfazione. Nigro affida alle sue farfalle notturne le ansie di un viaggio a ritroso, ironico, disincantato e struggente, che ha per protagonisti un padre, una madre e un figlio intellettuale, destinato a indossare i panni di un Ulisse dapprima fuggiasco, poi tornato nella geografia del ricordo, che è quella del paese natale, raccontato come isola felice, luogo dell'utopia, archetipo del sogno. Ma l'ipotesi del romanzo familiare non è che uno degli aspetti di questi versi in lingua lucana. Nigro non compie un solitario percorso a ritroso. Le sue farfalle si presentano puntuali a recargli in dote il nome dei compagni di avventura, perfino i poeti di altre epoche. Tutto ciò induce a ipotizzare che i versi di Falene compongano un'allegorica antologia di ritratti. Il testo si chiude con la nuova emigrazione verso il miraggio di una "città del sole", che non ha nulla a che vedere con l'utopia di Campanella, ma che viene salutato dai lucani come una patria promessa. "Era probbie n'atu munn, curu paese / d ru latt e ru mele / ca da lu novcind scappai ind u doimele". La rima miele/duemila fa da epilogo a un secolo e oltre di storia per quella che Ernesto De Martino definiva la "terra del rimorso" e che ora NIGRO fissa nella categoria di "terra stramorta", abitata da un "popolo che si squaglia".
by Giuseppe Lupo
(l'articolo è apparso su Il Mattino, 2005)

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07 marzo 2007

Isabella e le altre: un silenzio di voci sfondato dal “dominio” della parola e della poesia

[percorsi -10]
Quando all’inizio della primavera scorsa ho avuto tra le mani l’ultimo libro di Lorenza Colicigno, ho intuito subito che mi trovavo di fronte a un lavoro vasto, ma soprattutto originale e autentico, costruito secondo lo schema classico della tragedia greca (esordio, atti di recitazione dialogati, exudodus o epilogo). “Canzone lunga e terribile”, così il titolo della sua ultima raccolta datata 1997-2003, mi ha accompagnata in uno dei miei viaggi a Roma. Amo leggere viaggiando. Cinque ore di autobus dal Sinni di Isabella al Tevere, per sfogliare e attraversare mutamenti e trame di un’opera sinfonica alta e sfaccettata, giocata tutta sul recupero della memoria della giovane poetessa Isabella Morra, con cui l’autrice intesse a distanza di quattro secoli un dialogo intimo o meglio un colloquio interiore da donna a donna, intervallato dalla voce fuori campo di un coro che spiega, preannuncia, riassume, enfatizza o semplicemente accompagna “la recitazione”. “In questo quadro contemporaneo – scrive con acume Adele Cambria nella prefazione al libro- Lorenza Colicigno ha forse azzardato la sfida più audace: un dialogo tra ieri e oggi, tra due donne-poete, Isabella e lei stessa, sostenuto da un Coro che ha la funzione classica del Coro nella tragedia greca”.
E così in questo percorso di voci che si incrociano, si intrecciano e si sostengono “la tua carezza cerco che mi accompagni/ il tuo respiro che mi segua nelle pause dell’ispirazione” la voce dell’autrice insegue e accompagna la poetessa di Valsinni in un racconto che osa e va oltre il già detto.
E proprio in quel chiedere, indagare, intuire sul filo di domande e risposte condivise, l’autrice ci restituisce una figura di donna nuova, più interiore, adesa al reale e sicuramente più cosciente e consapevole di se stessa, dei fatti e dell’accadere degli eventi “... pur affamata d’abbracci… mi respinge il mio tempo/ in esili di esili versi”.
Isabella diventa così, metaforicamente, “compagna di pena” di sé stessa e di “innumerevoli voci di donne che scavano/ la loro vita in un solco di solitudine/ -consapevole- per sé e per tutte”, di cui lei come un estremo dono ne raccoglie l’eco. La raccolta richiama infatti alla memoria esperienze comuni e percorsi di storia e di vita di altre donne sottratte alla vita dalla ferocia del pregiudizio: Ester Scardaccione, Silvia Plath, Atonia Pozzi, Giuliana Brescia, Amelia Rosselli, Safiya, accomunate tutte dallo stesso tragico e infimo destino, da una frattura con la vita (estrema e prevedibile) da quella che potremmo più semplicemente definire “la morte annunciata”. Ognuna delle voci femminili è posta ad apertura delle sei stanze che compongono la struttura dell’opera e ognuna di esse assurge a simbolo di un dolore e di una sofferenza “non più taciuta al mondo”, bensì rinnovata, dilatata, condivisa in quel “tutte” che ritorna costantemente e chiude il cerchio “nella mia coscienza/ si rimargina la tua ferita, abisso di tutte,/ lentamente colmato dalle lacrime di tutte”.
Condivisione e pietas, ma non abbandono, né resa nel messaggio di Lorenza, bensì il riscatto salvifico della parola “Siamo in porto, Isabella –recita il coro in conclusione- insieme un lessico, arduo nocchiero/ della diversità, ci conduce/ nell’infinito dominio della poesia,/ dissigillata fonte,/ lì dove nessun castello,/ nessun cervello può confinarci,/ benché disperate./ E mai disperanti.” Un silenzio estremo, lungo e terribile dunque, un libro di voci magistralmente sfondato dalla forza della parola e dalla poesia.
by Maria Pina Ciancio
(l'articolo è apparso su La Gazzetta del Mezzagiorno, 2003)

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