28 agosto 2006

La sacralità della parola in Vincenzo D'Alessio

[percorsi -5]
Annualmente, mi sono pervenute, puntuali, le raccolte di poesie di Vincenzo D’Alessio “L’altra faccia della luna”, “Costa di Amalfi”, “La mia Terra”, “Ippocampo”, “Versi di lotta e di passione” pubblicate dal G. C. “F. Guarini”, Solofra.
La prima lettura è stata veloce ma incomprensibile e misteriosa.
Ora le ho tutte davanti a me; le ho lette, rilette più volte, ho scandagliato il verso, ho analizzato lo stile, ho cercato di decifrare le inversioni logiche del costrutto, le ellissi verbali.
Il velo si è tolto d’incanto; mi è apparso l’uomo vibrante d’amore, il poeta sospeso tra la terra ed il mare, desideroso di cielo; il Poeta del Sud, innamorato della sua terra mediterranea solare, coscienza di secoli, deserto di uomini, con partenze e ritorni, ed i sogni che a volte non tornano.
E’ dalla sua terra stesa al sole, che si ammala di ruggine a settembre, che D’Alessio assume la materia del canto.
Egli è particolarmente legato alla sua terra, con le sue faggete colme di aquiloni, le sue siepi al sole, i noccioli avvinti al laccio della luna, le pendici di castagni neri.
La sua Irpinia è madre di saggezza, che raccoglie calici amari di tristezza, ma è anche capelli spettinati di donna acerba e diventa la fanciulla pura che spia l’infinito.
E della donna ha bisogno il poeta come l’acqua che sale fino all’immensità del cielo; lodola è lei/l’amore inquieto; a lei chiede di insegnargli a volare innanzi al giorno, dove l’acqua parla dell’antico sogno; a lei si rivolge con tono di rimprovero quando, anguilla dei sogni, lo lascia andare lungo la china senza fermarlo.
La sua donna, desta di luce, lo afferra per condurlo al mare.
Il mare è presente sempre nei suoi versi: la vecchia casa diventa un mare di ricordi; il mare entra a tratti violento, porta a fondo pozzi di cielo, rugge nottetempo, a volte intrappola, a volte spegne sottovento schiume di rabbia sugli scogli. Nel mare annega i suoi lamenti.
E’ il mare dell’essere leopardiano dove il poeta si tuffa per sfogare la sua rabbia.
Lui è un navigante inquieto, è pescatore di sughero che riassetta le reti, è salice sommerso nella terra, dove affonda radiche innocenti. Si ritrova stanco e solo: vecchio arcobaleno multidolore; si ritrova con un volto duro, provato dai troppi ritorni .
E’ l’uomo del nuovo millennio che vive in tempi di calamità e di sventure.
Quando il tempo ritorna padrone delle lunghe giornate, la solitudine lo assale e l’anima diventa un manifesto affisso al muro cielo del vicolo.
E’ proprio il pianto dell’anima che traspare nei versi, rotti dai singhiozzi, che determina la scrittura incisiva, essenziale.
Ci si trova di fronte ad una voce originale che unisce, con il suo stile lapidario, con l’uso di anacoluti, di enjambement, di analogie, di metafore e di metonimie, moduli post ermetici a fascinazioni realistiche.
Ci si trova di fronte all’essenzialità lirica, alla parola intrisa di stati d’animo, di sentimenti; parola che matura nel silenzio, fa fatica a venire fuori, ma quando esce, è nuda, brilla di luce propria, non ha bisogno di accessori e riacquista il suo antico valore sacrale. E’ una parola capace di svelare i segreti di un animo sensibile ad ogni mutamento, è una parola che testimonia l’attaccamento alla vita, la forza di lottare, ma va ascoltata, ben meditata e soppesata. La parola, infatti, non stabilisce col lettore un rapporto immediato, non è aperta a lui, ma tende a piegarlo con la sua incandescenza enigmatica, a sollecitarlo al desiderio, provocatoriamente. Allora la parola diventa polisemica.
Le parole scarne sono avvolte nel sudario del dolore; il poeta soffre per la morte del figlio, per l’allontanamento della donna amata, per i figli lontani, per il faticoso ritrovarsi, per la gente ingrata, per i drogati, per il danno provocato alla sua terra dall’inquinamento e dalla politica dissennata, per l’altra faccia della luna, fugge l’ira delle strade, la rissa negli stadi.
E’ un verso gridato il suo, musicato sulle corde dell’anima, cullato dalle onde del mare, accolto dalla sua terra.
La sua è una voce singolare, rappresentativa del nostro tempo inquieto. Il Nostro è dominato da un’ansia febbrile che si traduce liricamente in un bisogno di libertà creativa travolgente tematiche e linguaggi che lo avvicinano a Pavese, Gatto, Cattafi e Scotellaro. Accanto al poeta degli stati d’animo c’è l’intellettuale, il letterato che studia le forme ereditate dai suoi avi, analizza i costrutti e li elabora trasformandoli in uno stile nuovo che rivela una sottile sapienza. La poesia di D’Alessio è una poesia frantumata, che svela l’io profondo, scava segreti pensieri.
La strada su cui si incammina il poeta è un cumulo di rette rotte nel pensiero, solitarie nel ritorno. Egli va alla ricerca della pace, che raggiunge nella costa di Amalfi, nel sorriso della sua donna, negli occhi verde acqua di suo figlio. Ma è un attimo. Subito dopo ritorna il tormento, lo spirito guerriero foscoliano, che rugge nell’animo inquieto.
L’uomo poeta va alla ricerca di Dio disperso all’orizzonte, di un giovane Dio che incanta sotto il cielo di drappi di gioia, di un Dio cieco che rinnovi un diluvio di speranza. Il Dio dei suoi sogni è un Signore vestito a festa colmo di regali.
Vorrebbe toccare il cielo e spaventarsi dell’immenso azzurro.
Ha paura di cambiare.
Allora si affida teneramente alla dolcissima Speranza, per andare incontro al destino la luce del mattino.
by Teresa Armenti
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07 agosto 2006

Intervista a Teresa Armenti

[Incontri -1]
In occasione dell'uscita del suo nuovo libro "Mio padre racconta il novecento", vi proponiamo in esclusiva un'intervista rilasciata dalla scrittrice lucana Teresa Armenti a LucaniArt.
M.P.C. - Cara Teresa, ti sei già occupata in passato di ricerca storica scientificamente documentata presso biblioteche e archivi, questa volta invece, con "Mio padre racconta il Novecento", hai scelto di occuparti di una storia diversa, non più filtrata da documenti ufficiali, ma dalla viva voce di tuo padre. Com'è nata questa idea?
T.A. - Effettivamente, da oltre un ventennio, sono andata per archivi e biblioteche, per ricostruire, insieme alla mia amica Ida Iannella, la storia di Castelsaraceno. Io e Ida abbiamo consultato registri impolverati, siamo andati anche all’Archivio Segreto Vaticano, con una lettera del Vescovo, altrimenti non potevamo entrare, per la storia dell’Abbazia di S. Angelo al monte Raparo con il culto micaelico. La ricerca storica è affascinante, ma è molto faticosa e richiede anni di rigoroso lavoro. Il lavoro su mio padre, invece, è stato diverso, direi anche, sotto molti aspetti, divertente. Devo precisare che mio padre, nel corso degli anni, ha sempre raccontato i fatti di guerra, soprattutto durante i pranzi con parenti ed amici, tanto che qualcuno l’ha definito “Il guerriero”. Si poneva al centro dell’attenzione ed attirava la curiosità degli ascoltatori, perché faceva rivivere l’episodio con un tono di voce vibrante, che variava a seconda dell’intensità del racconto, accompagnato da una mimica particolare e dal linguaggio onomatopeico. Spesse volte temevo che i convitati si potessero annoiare ed allora ricorrevo ad alcuni interventi per cambiare discorso.
L’anno scorso, a Castelsaraceno siamo stati sepolti dalla neve. Per un mese e mezzo non siamo usciti di casa. Come dovevamo trascorrere il tempo, io e mio padre, nel migliore dei modi? L’ho invitato a raccontare i suoi fatti, non solo di guerra. Li ho registrati con l’MP3 e successivamente, la sera, li ho trascritti al computer, dando un ordine cronologico ed una forma comprensibile.
M.P.C. - Considero questo un libro coraggioso, per la capacità che tu e tuo padre avete avuto di mettervi in gioco. Quanto vi è costato in termini di tempo e cosa ha rappresentato nel vostro rapporto di padre-figlia.
T.A. - Parlare di se stessi, delle proprie origini, è senz’altro rischioso, perché la nuda e cruda realtà ti viene messa davanti, senza edulcorazioni varie.
Ma è bello mettersi in gioco, perché entri in contatto con la parte di te, che cerca di sfuggirti, ti scrolli di dosso i pregiudizi, le negatività che ti hanno accompagnato, ti metti in relazione con il mondo che ti circonda e ti riconcili con te stessa e con gli altri. Mi vengono in mente, a questo punto, i versi di Rocco Scotellaro, a me tanto caro “Siamo entrati in gioco anche noi, con le facce e le scarpe che avevamo.”
Mettere da parte, poi, tutte le altre occupazioni e dedicarmi completamente a mio padre, ascoltandolo attentamente per ore ed ore, è stato un semplice gesto di amore. Il nostro rapporto si è senz’altro consolidato; abbiamo avuto maggiore comprensione reciproca; ci sono stati meno “musi lunghi”, più tolleranza. I nostri cuori, a lungo compressi, si sono finalmente inteneriti.

M.P.C. - Da un punto di vista narrativo, hai cercato di recuperare per quanto possibile la verità della storia e del sentimento a discapito della narrazione vera e propria. Una scelta rischiosa che però ha funzionato. E' così?
T.A. - Ho voluto semplicemente lasciare la testimonianza scritta di un contadino del Sud, che ha attraversato il 900 con dignità e spirito di sacrificio, ma anche con arguzia, senza pensare ai rischi della narrazione.
M.P.C. - Il libro procede secondo una scansione temporale dei fatti con la scelta di un registro linguistico semplice e lineare di grande effetto. Come sei approdata a questa consapevolezza.
T.A. - E’ stato difficile dare una scansione ed una forma al racconto. In un primo momento volevo raccontare solo gli episodi relativi alla seconda guerra mondiale (la battaglia di El Alamein, gli anni di prigionia). Successivamente ho pensato di ripercorrere i momenti più salienti del primo ‘900, incominciando dalla prima guerra mondiale, passando all’epidemia della Spagnola ed al lavoro che si svolgeva a Castelsaraceno. Volevo intervenire sulla narrazione, con un linguaggio più corretto ed appropriato. Ho fatto dei tentativi, ma mi sono accorta che non funzionava. Poi mi sono detta: “Se è mio padre che parla, devo lasciargli il suo modo di esprimersi, semplice e stringato, con espressioni dialettali.”
Un lavoro di registrazione e trascrizione di fatti sulla biografia di altre perone presenta peculiarità e caratteristiche sicuramente complesse. Sarebbe interessante scoprire e conoscere come si sono susseguite le fasi di questo lavoro di ricostruzione biografica.
Come ho riferito, durante la nevicata del 2005, ho registrato e trascritto i fatti di vita più salienti. Successivamente ho accantonato il lavoro ed ogni tanto l’ho ripreso, rileggendo e correggendo qualche brano. Ho interpellato spesso anche mio padre, per chiarire alcune incertezze. Ho consultato i manuali di storia, per verificare alcune date, come la guerra con la Francia nel 1940, la presa di Tobruch, la battaglia di El Alamein).
Nel mese di maggio, mio padre, che ha la bella età di 93 anni, è stato ricoverato in ospedale per problemi cardiaci. E’ scattata, allora, in me l’urgenza di portare a termine il lavoro. Ho trascurato altri impegni e mi sono dedicata, soprattutto la sera, a leggere, rileggere, riordinare, correggere il racconto. Nel giro di un mese, grazie alla sollecitudine dell’editore Vincenzo D’Alessio di Solofra, è stato stampato.

M.P.C. Il racconto di zio Felice, testimonianza "tragica" in un secolo che ha conosciuto molte tragedie, è attraversato in più punti da esperienze fortemente drammatiche, seppure velate a tratti da una lieve ironia. Il suo raccontare è sempre stato spontaneo, oppure qualche volta hai riscontrato delle reticenze? A un certo punto la storia sembra avere una brusca interruzione. Si è trattato di un caso o di una scelta?
T.A. Mio padre, come ho detto in precedenza, ha raccontato spontaneamente i fatti a lui accaduti con dovizia di particolari e con precisione. E’ come se nella sua mente ci fosse un registratore: stesse parole, stesse pause, stesso tono di voce. Egli si è soffermato soprattutto sulla vita della prima metà del Novecento e del secondo dopoguerra, quando si doveva lottare per la sopravvivenza. Del periodo – diciamo - del benessere raggiunto, lui non ne parla, come pure di mia madre e della vita trascorsa insieme a me dopo la sua morte. Non osa manifestare il suo dolore per la perdita dei suoi cari, ma lo avvolge in un alone di silenzio profondo. Io volevo anche narrare gli anni 70, 80, 90, ma giacché mio padre non ne parla, ho rispettato la sua narrazione, non ho aggiunto niente, non ho forzato la mano.
MPC - Zio Felice è contento nel sapere che questa sua testimonianza potrà favorire un maggiore approfondimento della storia del nostro paese e soprattutto potrà essere uno stimolante strumento di riflessione per le nuove generazioni?
T.A. - Mio padre è molto soddisfatto di questa pubblicazione, anche se sorpreso, perché non se l’aspettava. Lo si legge negli occhi e nell’interesse che mostra. Dice sempre “Quello che io racconto sono fatti veri, fatti davvero vissuti sulla mia pelle. Ora i giovani non conoscono il sacrificio.” Attraverso la sua narrazione, è stata recuperata una parte della memoria storica del nostro paese. Le nuove generazioni potranno conoscere una realtà ormai scomparsa, apprezzarne i valori su cui era basata, l’ironia da cui era attraversata e la semplicità gioiosa con cui era vissuta. Conoscendo il passato, potranno costruire il loro futuro, inneggiando alla vita.
by Maria Pina Ciancio
Teresa Armenti, Mio padre racconta il Novecento, Ed. "F.Guarini" 2006
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