11 marzo 2007

Le Falene poetiche di Nigro nel segno di De Martino

[percorsi -11]
Con Mosche in bottiglia, nel 1975, Leonardo Sinisgalli fissava nell'immagine della poesia-insetto un simbolo di straordinaria capacità semantica. Le sue mosche incarnavano le ambizioni della scienza e gli inganni della memoria. Le Falene (Aragno, pag. 147, euro 12) di Raffaele Nigro, che giungono in libreria esattamente dopo trent'anni dalle mosche sinisgalliane, chiudono il cerchio. Sono esseri dotati di una particolare leggerezza che li rende evanescenti come sogni e, anziché presentarsi in lingua italiana, hanno il passo cadenzato dell'idioma lucano: non quello del dialetto di Albino Pierro, in cui Gianfranco Contini intravedeva addirittura una parlata "neolatina", ma una cadenza appenninica; una parlata certo di consonanti un po' ruvide ma con le vocali che già si aprono alla pianura pugliese, proprio come i fiumi che nei romanzi di Nigro nascono dalle pendici dei monti e si volgono senza rimorso all'Adriatico. Anche le falene, come le mosche, rappresentano il riassunto di una intera esperienza letteraria (come non pensare alle "farfalle" di Montale?) e hanno i connotati degli «eroi omerici e ariosteschi», secondo un'efficace interpretazione cui fa cenno Andrea Di Consoli nella postfazione. Nigro affida alle sue farfalle notturne le ansie di un viaggio a ritroso, ironico, disincantato e struggente, che ha per protagonisti un padre, una madre e un figlio intellettuale, destinato a indossare i panni di un Ulisse dapprima fuggiasco, poi tornato nella geografia del ricordo, che è quella del paese natale, raccontato come isola felice, luogo dell'utopia, archetipo del sogno. Ma l'ipotesi del romanzo familiare non è che uno degli aspetti di questi versi in lingua lucana. Nigro non compie un solitario percorso a ritroso. Le sue farfalle si presentano puntuali a recargli in dote il nome dei compagni di avventura, perfino i poeti di altre epoche. Tutto ciò induce a ipotizzare che i versi di Falene compongano un'allegorica antologia di ritratti. Il testo si chiude con la nuova emigrazione verso il miraggio di una "città del sole", che non ha nulla a che vedere con l'utopia di Campanella, ma che viene salutato dai lucani come una patria promessa. "Era probbie n'atu munn, curu paese / d ru latt e ru mele / ca da lu novcind scappai ind u doimele". La rima miele/duemila fa da epilogo a un secolo e oltre di storia per quella che Ernesto De Martino definiva la "terra del rimorso" e che ora NIGRO fissa nella categoria di "terra stramorta", abitata da un "popolo che si squaglia".
by Giuseppe Lupo
(l'articolo è apparso su Il Mattino, 2005)

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