11 maggio 2008

Al di là della neve. Storie di Scampia di Rosario Esposito La Rossa

[percorsi -21]

Al di là della neve. Storie di Scampia.
Emozioni di un incontro

Questa recensione, inedita, è stata realizzata da Margherita Colangelo nel mese di dicembre 2008, dopo aver assistito alla presentazione del libro di Rosario Esposito La Rossa, Al di là della neve. Storie di Scampia, Napoli, Marotta & Cafiero, 2007, tenutasi a Potenza, presso il Teatro “Francesco Stabile” il 10 dicembre 2008. Margherita è attualmente specializzanda in Linguistica Filologia e Letteratura presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università della Basilicata (Rosa Piro)

Quando cerchiamo di fissare in un’immagine la volontà che spezza le catene dell’indifferenza e cerca di elevarsi da quella prigione che tanta parte dell’umanità ha costruito attorno ad essa, comincia a palesarsi la figura di Rosario Esposito La Rossa.
È strano come un incontro, dettato dalla presentazione del suo primo libro Al di là della neve. Storie di Scampia, abbia sconvolto non solo la vita di quanti si accingono a varcare l’uscio della maturità, ma anche coloro che, credendo di sentirsi avvezzi a storie di degrado e vessazione, si ritrovano a riflettere su molti problemi che affliggono le generazioni presenti e quelle che verranno.
Le parole di quel ragazzo, forse maturato troppo in fretta, risuonano ancora nella mente di quanti, assorti quasi in un’atmosfera da sogno, avrebbero trovato all’uscita dal teatro le luci della città in festa che si preparava al Natale, accompagnate dal lento, ma costante, ticchettio della pioggia, che scandiva i battiti irregolari di un cuore sempre più prossimo a proiettare al suo interno una nuova configurazione della realtà.
Già, perché ogni fragile illusione di conoscenza del mondo al di là delle nostre case, delle nostre piccole comunità si è sfaldata, generando un cumulo di detriti che si presentano come un difficile puzzle da ricomporre. Eppure di tasselli mancanti ce ne sono ancora tanti, sebbene l’attenzione per certi fatti di cronaca si sia fatta più viva negli ultimi anni.
Molti sono stati gli interventi nel corso della presentazione e ognuno di essi si è rivelato utile per scoprire una parte della personalità di Rosario, apparso non come una vittima che ha accettato la propria condizione di emarginato dalla società benpensante, la quale evita con ogni mezzo il confronto con l’altra faccia della comunità, ma come un giovane che, consapevole di avere al proprio arco poche frecce in grado di scagliarsi verso i bersagli più ambiti, si prodiga affinché ogni passo del suo cammino non sia vano, intravedendo nella sua opera un tentativo per scardinare le prese di posizione di quelle persone che lo hanno relegato a priori in una posizione di secondo rilievo.
Rosario, con il suo sforzo creativo, rappresenta tutta quella gente la cui voce è sopraffatta dal peso dell’ingiustizia e dell’impossibilità alla lotta.
Una delle accuse che gli è stata mossa è quella di non avere fiducia nelle istituzioni che operano sul territorio di Scampia, quali le forze dell’ordine, viste da lui come fagocitate dal sistema malato dell’illegalità e dunque incapaci di opporre una forte resistenza all’avanzata della Camorra, che pare offrire l’illusione di una vita più agiata a molti giovani, e la Chiesa, il cui impegno in favore del quartiere perde di importanza a causa dell’inettitudine a scendere in strada ed agire concretamente affinché tutte le attività da essa promosse risultino valide per chi ogni giorno calpesta un terreno minato.
È stato proprio questo punto della discussione a generare un animato confronto fra i presenti, e alla luce di tutte le storie che emergono dal torbido della droga e della vendita delle armi, non si può puntare il dito contro qualcuno che, pienamente addentro la propria condizione esistenziale, si sente lontano dai timidi tentativi da parte delle istituzioni di riportare un ordine ormai sconvolto dal continuo rigenerarsi di forze capaci di tacere la loro presenza e il loro controllo in molti centri. Ma per Rosario questo processo non è irreversibile, in quanto una forte volontà, unita ad una pronta azione volta a sancire il dissenso verso l’operato della camorra, possono consentire a ragazzi come lui, di dare una svolta decisiva non solo alla propria vita, ma anche a quella di un intero Stato.
A Rosario, studente iscritto alla Facoltà di Giurisprudenza, preme, per sua stessa ammissione conoscere i propri diritti. Questa affermazione non si può pienamente comprendere se non si è udito il modo con cui l’ ha espressa e se non si è osservato lo sguardo attraverso cui comunicava le sue aspirazioni. Evidentemente il desiderio che anima Rosario è quello di non permettere più, come è accaduto nel caso di suo cugino, che persone cadute negli agguati di Camorra, benché ne fossero estranee, non vengano restituite immediatamente alle loro famiglie con la dignità che è propria di chi con quella “istituzione” non ha nulla da spartire.
Alla domanda che durante la serata della presentazione del libro gli è stata posta: C’è una sedia vuota accanto a te. Chi vorresti che vi fosse seduto?, Rosario ha risposto che lì, accanto a lui, avrebbe voluto avere suo cugino, e non i rappresentanti di quelle istituzioni che si cimentano ogni giorno con il tentativo di mantenere l’ordine pubblico.
Il corpo di suo cugino, un ragazzo morto durante l’ennesima lotta per la supremazia fra i clan, è stato restituito ai suoi cari dopo diversi giorni dalla sua morte e la sua estraneità ai fatti è stata dimostrata dopo molto tempo. Da questa tragica scomparsa Rosario ha deciso di prendere in mano la sua vita. Ha fondato un’associazione e ha creato un sito internet a cui tutte le persone in difficoltà possono rivolgersi. Il suo libro, inoltre, offre uno spaccato drammatico della vita di molti suoi coetanei che non trovano in se stessi lo stimolo per reagire alle ingiustizie cui sono sottoposti.
Il turbamento che scaturisce dalla lettura delle storie contenute in Al di là della neve non rimane una sensazione isolata perché ci spinge a interrogarci anche sulle nostre scelte. Anche se Scampia è geograficamente lontana dalla nostra città e dalla sua piccola provincia, le esperienze narrateci possono fungere da monito a tutta la nostra attività presente e futura. Rosario riesce a infondere in chi lo ascolta una sana fiducia nel domani, nonostante le tante brutture attorno a lui rischiano di sporcargli le ali, che, rinvigorite, può spiegare per raggiungere tutti i traguardi che si è prefissato.

Rosario Esposito La Rossa è nato a Napoli il 13 settembre 1988. Ha partecipato al progetto teatrale ARREVUOTO con lo spettacolo "La Pace!" debuttando al teatro Mercadante e al teatro Argentina di Roma. Ha fondato l'associazione VO.DI.SCA (Voci di Scampia) che da qualche anno opera sul quartiere.Questo è il suo primo libro.
by Margherita Colangelo

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30 gennaio 2008

Il Sud di Andrea di Consoli

[percorsi -20]
Il romanzo che lo scrittore Di Consoli ci propone è da annoverarsi tra le belle prove di scrittura di quel filone meridionalista che va riscoprendo la forza delle radici e il dormiveglia nel quale è crollata la popolazione delle regioni del Sud Italia a causa delle cattive e facoltose abitudini sociali. Stiamo dicendo che a causa dell'eccessivo benessere la gente del Sud della penisola ha completamente dimenticato le grandi prove di scrittura che hanno caratterizzato gli anni tra la seconda guerra mondiale e la recessione industriale degli anni Ottanta. Abbiamo letto il romanzo di Carmine Abate La festa del ritorno (Mondadori, 2004) che ha molte similitudini con Il padre degli animali. In modo particoalare per quanto riguarda i riti antichi, quelli arborei, i fuochi delle stoppie nei campi, i balli, i falò e la gente intorno, le bevute insieme, il calore di un meridione che sta cambiando sotto i nostri occhi mediante i duri colpi di una politica consumistica calata dalla parte ricca della Bella Italia. Per quanto si tenti di allontanare la paura della morte, questa ritorna forte, si insinua in ogni pagina del romanzo proprio come nelle poesie del Nobel Quasimodo, quasi come un'acqua sorgiva che scaturisca dagli occhi della nostra terra calda e colma di luce solare. Gli animali. Animali senza nome che hanno lavorato ininterrottamente in Svizzera, ma sarebbero potuta essere la Germania, il Belgio o altre nazioni, alla costruzioen delle case, delle fabbriche, delle autostrade, dei negozi, della miriade di edifici delle grandi metropoli oltralpe. Animali che hanno visto i propri figli, i nipoti, morire al Sandis Park di Zurigo per overdose, o suicidarsi spingendosi dal ponte dei sospiri di Appenzell. Animali che sono tornati a casa carichi di soldi ma poverissimi di affetto. Hanno visto i propri figli e nipoti finire in malo modo proprio quando sono rientrati in paese e hanno completato la loro fuga, quella degli anni Sessanta, con un rientro privo di qualità, di riconoscenza da parte dei paesani e nella perdita dei figli incapaci di adattarsi a questo cambiamento. Tre parti di un romanzo forte e costruttivo, mai rabbioso, mai stonato, nonostante sia pervaso da un dolore cosmico che si affaccia alla fede per racimolare una piccola forza di rivincita.Il Sud raccontato dal Nostro è quello della Val d'Agri, dei pozzi petroliferi, della gente forte e buona della provincia tra Salerno e Potenza, quella terra lucana tanto cara ai giorni nostri a Leonardo Sinisgalli o a Rocco Scotellaro. Questa è anche la terra descritta da Carlo Levi nel suo Cristo si è fermato a Eboli o nel romanzo Ombre sull'Ofanto di Raffaele Nigro. Un romanzo che pagina dopo pagina scopre le difficoltà del ritornare a quella che dovrebbe essere la vita delle origini: una sorta di sorgente, come quella descritta dallo scrittore, che dovrebbe dissetare e invece non può più assolvere questo compito perché tutto il passato è divenuto “fango“ che distrugge la luce dei ricordi.Raccontato attraverso la figura di un figlio, il padre assume la grandezza e la saggezza dei “padri della terra“ (se ci sentono cantare) ma il canto è un lezzo di morte che percorre le vecchie generazioni e avvisa le nuove dei cambiamenti in atto. irreparabili, insormontabili, se non nella fuga da questi luoghi e da questa gente. In sintesi, quello che sta avvenendo da sempre al sud di ogni parte del mondo e in modo ravvicinato nel sud della nostra penisola italiana. La politica, la maledetta politica che tradisce la gente onesta e svilisce quanti credono in questa figura che si “aggiusta con la mano i grandi occhiali rossi“ tanto da condurla al suicidio o ad allontanarsi per sempre dai luoghi natali dopo aver conseguito la laurea. La politica con i suoi esponenti, piccoli e grandi, ha ucciso il Sud dal dopoguerra e non smette. Chi rappresenta lo Stato o indossa una divisa non si comporta in modo migliore di fronte alle paure degli onesti e alle palesi ingiustizie dei politici.Anche i preti fanno la loro parte.In questo dramma ancestrale e collettivo, la figura del padre, immensa e silenziosa, assume l'asse nord-sud, cielo-terra, bene-male, quasi come una strada di mezzo, una via di salvezza. La figura materna è appena accennata, poche volte ricordata, quasi in forma onirica, come un'alba lontana. Stupisce la frammentazione delle vite dei personaggi che si dispongono attorno alla figura del figlio e del padre. Come il ricorso alle metafore riprese dalla quotidinità di un sud in parte scomparso o che sopravvive in gesti ristretti a piccoli gruppi superstiti. Ogni pagina di questo romanzo, collocatosi tra i vincitori del Premio Napoli 2007, trasuda verità e meraviglia, calcando le belle pagine di uno scrittore come Bontempelli o quelle asciutte di Calvino. Un raccontare che somiglia a un viaggio, sostenuto con il convincimento che i cambiamenti stanno epurando al parte ancestrale delle buone tradizioni che il suo della penisola italiana conservava. I dialoghi, tra i personaggi e il cosmico, avvengono come frammenti di una lingua passata che nascondono il calore e la violenza del dialetto calabrolucano. In questo romanzo il dialetto non si affaccia a materializzare detti e frasi consuete. Lo fanno i gesti, i monologhi, le descrizioni, il testamento che lo scrittore Di Consoli consegna alla letteratura italiana consacrando, con questa bellissima prova alle soglie del nuovo secolo, la letteratura meridionale troppe volte ignorata e che invece continua ad offrire le forze migliori non solo di braccia ma di talenti letterari.
by Vincenzo D'Alessio

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13 gennaio 2008

La dittatura di Dio di Vincenzo Capodiferro

[Saggi -1]
Sorprende ed incuriosisce sempre Vincenzo Capodiferro per i suoi scritti poliedrici, che vanno dalla poesia alla satira pungente e ritmata, all’antropologia, alla denuncia del degrado sociale e politico, alla storia. Questa volta esula dalle problematiche attuali e si tuffa in pieno periodo illuministico, esordendo con il saggio filosofico dal titolo provocatorio “La dittatura di Dio – Libertà e dispotismo in Nicolas Antoine Boulanger”, pubblicato nel mese di aprile 2006 dalla Casa Editrice Clinamen di Firenze, pp. 80.
L’autore è stato sollecitato ad interessarsi dell’ingegnere – filosofo Boulanger dal suo maestro ed amico, Antonio Motta, anche lui ingegnere e storico, scomparso di recente, che gli regalò il testo di Franco Venturi “L’antichità svelata e l’idea di progresso in N. A. Boulanger” del 1947.Venturi, in effetti, è il punto di riferimento essenziale per comprendere il pensiero di Boulanger, ma è anche quell’anello di congiunzione mancante tra l’Illuminismo e l’hegelismo liberaleggiante di Croce. Vincenzo Capodiferro, chiamato simpaticamente “il filosofo” dagli amici di Castelsaraceno, si è fatto carico di questo importante dono e l’ha restituito al suo maestro con la seguente dedica: ”Ad Antonio Motta, ingegnere stradale, mio Virgilio nel cammino infernale, dono arricchito il suo dono di Boulanger e del Diluvio Universale”. Occorre ricordare che lo storico Antonio Motta ha seguito Capodiferro nel suo interessante lavoro di storia “Una domenica di sangue – Terra e libertà nelle infime convalli lucane” del 2002. Nel saggio filosofico, corredato dalla presentazione di Antonietta Viola, laureata in Scienze politiche, e da una nota di Denis Diderot sulla vita di Boulanger, viene analizzato il pensiero sul dispotismo di Boulanger (1722-1759), un filosofo illuminista considerato di minore importanza, ma originale ed anticlericale. La sua vita fu “breve, solitaria prima, chiusa e quasi nascosta poi nel seno di un piccolo gruppo di amici”. Egli ricerca l’origine delle strutture religiose e politiche nel terrore provocato dai grandi cataclismi; infatti, fa risalire il tutto al diluvio universale, che ha sconvolto l’umanità ed i suoi effetti morali e fisici si risentono ancora nella collettività umana. La tirannide, dunque, è la prima forma di governo, scaturita dal terrore diluviano, al quale seguono le altre. Ě una concezione rivoluzionaria, questa, come anche, a livello morale, il bene e il male, sono semplici stati d’animo. Il problema che viene posto è come risolvere il dualismo uomo-Dio, che sta alla base dei paradossi che ne scaturiscono. Capodiferro ne analizza tre: 1) Se la religione e la filosofia hanno come medesimo oggetto il vero, perché la religione predica la ciclica distruzione universale, mentre la ragione il progresso infinito verso la libertà? 2) L’uomo è un essere storico che tende alla libertà, ma in quanto essere naturale è soggetto alla necessità. 3) Come conciliare l’idea del progresso infinito della ragione con la non eternità del mondo. Il Nostro, con disinvolta sicurezza, ripercorre le tappe della storia della filosofia, evidenziando le affinità e le differenze del Boulanger con S. Agostino, Vico, Hegel, Montesquieu, Croce. Mette in risalto come il Boulanger tenta di smascherare ogni forma di dittatura, riducendola ad una sorta di velata teocrazia umana. Il pensiero del filosofo illuminista, per Capodiferro, è oggi ancora valido, perché offre un metodo storico e sociologico adatto ad ogni valutazione del dispotismo. Non mancano le considerazioni critiche, rilevate alla fine del saggio, sul concetto di storia, sull’atteggiamento negativo verso la Chiesa, gli Ebrei e gli Orientali.Il merito di Capodiferro è quello di aver permesso, come ha sottolineato Antonietta Viola nella presentazione, che “il solitario Boulanger varcasse la soglia della sua solitudine umana per unirsi al coro dei saggi”, oltre a quello di essersi introdotto in un campo difficile, solo per gli eletti, ma anche entusiasmante ed intrigante, come quello della filosofia, che può portare alla seguente affermazione conclusiva: ”Dio ha creato l’uomo libero, l’ha dotato, infatti, al pari degli angeli, di libero arbitrio, non per dominare gli altri, ma per amarli. Non è giustificabile alcuna monarchia di Dio sugli uomini, ma una visione che lo proponga come Padre misericordioso più che come giudice giusto”. La lettura di questo saggio non mi ha affatto allontanato da Dio, ma mi ha fatto riflettere sulle possibili tentazioni dell’uomo che, in nome della sua presunta libertà, può sviluppare un pensiero deviante e distruttivo, che lo separa dalla sua natura. La nostra personalità, purtroppo, è divisa al suo interno.Ci sono in noi tanti “io” non collegati ad un unico centro. Ciascuno racchiude in sé tutta una serie di individui diversi: il cittadino, il professionista, il disoccupato, lo sposo, l’uomo di affari, il cristiano, l’anticlericale, l’uomo di mondo; tutte queste figure non sono ben coordinate fra loro. Ciascuna di esse vuole imporsi e prendere il sopravvento sulle altre.Non c’è unità in noi. Siamo perplessi e sballottati. Se, invece, ci lasciamo invadere dall’Amore di Dio, non possiamo considerare il nostro Creatore un despota, di cui aver timore, ma possiamo finalmente trovare unione in noi ed essere sorgente di luce e di speranza.
Vincenzo Capodiferro è nato a Lagonegro, in Provincia di Potenza, nel 1973, si è laureato in Filosofia presso la “La Sapienza” di Roma e attualmente vive a Varese.

by Teresa Armenti

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01 dicembre 2007

LucaniArt intervista la poetessa lucana Assunta Finiguerra

[incontri -6]
"LA POTENZA ESPRESSIVA DEL DIALETTO IN ASSUNTA FINIGUERRA"
Scrive in dialetto lucano Assunta Finiguerra, la poetessa di San Fele che con la forza appuntita e diretta dei suoi versi riesce a trasmettere passioni ed emozioni che toccano i fondali più reconditi dell’animo. La sua carica espressiva e la sua originalità linguistica ha suscitato notevoli riconoscimenti e apprezzamenti tra i nomi più stimati e noti della critica letteraria contemporanea. Noi l’abbiamo incontrata e intervistata per voi, sul rapporto “simbiotico” e viscerale che vive con la poesia e il dialetto lucano di san fele.

Hai sempre scritto le tue raccolte poetiche in dialetto lucano. Che cosa ti spinge a scegliere come codice espressivo quello del vernacolo?

Premetto che la mia prima raccolta poetica “Se avrò il coraggio del sole” è in lingua, poi mi sono espressa in dialetto perché è nel mio Dna, lo trovo più immediato, più efficace, più colorito della lingua italiana. Sarebbe un recupero delle tradizioni se nelle scuole si dedicasse almeno un’ora settimanale allo studio del dialetto, i giovani quasi lo ignorano, italianizzano i vocaboli e quel magma incandescente, non altro che l’humus naturale della cultura di ogni regione, nel corso degli anni si dissolve, fino a diventare italiano impuro.
Dentro il dialetto vibra il sentimento di chi parla, si trasfigura e si ricrea la materia linguistica, arricchendola d’una nota personale. L’approfondimento di questa materia nelle scuole, condurrebbe il ragazzo all’apprendimento della lingua nazionale, ci sarebbe così un ritorno d’amore verso la grande patria, attraverso il culto della piccola patria natale.

Nelle tue poesie traspare tutta la carica e la potenza primitiva ed arcaica della nostra terra. Come nasce questa simbiosi tra la tua poesia e le radici?

La simbiosi tra la poesia e le mie radici nasce da un dramma interiore, da qui emerge il rapporto uomo-mondo, uomo-Dio, le sfumature che riguardano le ingiustizie del vivere, l’amore o il disamore.
Scrivere per me vuol dire aprire le porte del Tempo, entrare nella dimensione giusta per far sì che il dolore o la gioia, le invettive o l’amore, diventino scorci di vita reale, spiragli sul mondo del sogno, dell’immaginazione e perfino dell’incubo. La bellezza del dialetto è perché scava nella propria realtà interiore e quindi è un potentissimo mezzo espressivo; non manca in questa lingua la vena sentimentale o tragica sulla miseria, sulla morte resa in tono drammatico e senza retorica.

La terra di Lucania come influenza la tua scrittura poetica al “femminile”?

Innanzi tutto non credo che ci sia una scrittura al femminile la poesia, se tale, non ha sesso. Io per esempio, a volte provo odio-amore per la mia terra, nonostante i sentimenti conflittuali di cui parlo alcuni miei versi non sono altro che un canto d’amore verso di essa: … sope a panze na nzerte de fiure janghe / de quere amata terra putendine …sul ventre un serto di fiori bianchi / della mia amata terra potentina… Solije Zone Editrice 2003 Roma.
Sono sicura che tutta la mia poesia nasca da questo terremoto interiore. Non a caso la mia poetica contempla l’amore, il sangue, il dolore, la morte: essendo essa carica di pathos, custodisce dentro il suono della vita, il grido del cuore che si distende in arcate silenziose, lo smarrimento dell’animo tra le nebbie del pensiero, il ricordo infantile sul pentagramma del passato.

Il dialetto è una lingua prevalentemente orale e musicale. Quali sono le maggiori difficoltà che incontri quando devi tradurre le tue poesie in lingua?

Tradurre è un compito molto difficile, “Franco Fortini ha scritto pagine memorabili sui rapporti tra traduzione e tempo storico, gli equivoci nel tradurre in altra lingua, l’impossibilità di far versioni di poesia, specialmente nell’affrontare quel nesso suono-emozione-significati così fondamentale nel fare poetico”. Franco Loi prefazione a Solije.
Condivido pienamente quando dice il grande poeta milanese, la poesia va gustata nella lingua originale, perché la traduzione non è altro che un semplice supporto al testo.

Nel corso del ’900 il dialetto è riuscito ad assurgere a grande dignità letteraria. Quali sono i tuoi rapporti con gli altri poeti dialettali contemporanei?

Pur riconoscendo che molti poeti hanno dato lustro alla poesia dialettale nel corso del ‘900 Pasolini, Biagio Marin, il nostro Albino Pierro ecc. io non mi ispiro a nessuno di loro, la mia è una poesia che non segue nessuna scuola ed è del tutto personale.
I miei rapporti con gli altri poeti, sia dialettali che in lingua, sono improntati sulla stima, sull’amicizia e mai ho messo a confronto la mia poetica con la loro.

Ci puoi raccontare in anteprima di qualche progetto futuro a cui stai lavorando?

Da poco ho terminato la correzione delle bozze – edizioni LietoColle – di una libera interpretazione nel mio dialetto del Pinocchio di Collodi. Se Dio vorrà ho altri progetti per il futuro, essendo lucana terragna e verace preferisco non rivelarli… un pizzico di scaramanzia non guasta mai!

Un grazie e un grande in bocca al lupo ad Assunta da parte nostra, per "Pinocchio" (che aspettiamo con ansia) la poesia e la vita.

by Maria Pina Ciancio

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11 novembre 2007

Storie di donne e di 'lupi' nel Sud tragico e arcaico di Clara Nubile

[percorsi -19]
In certi luoghi gli scrittori non servono, perché le storie –da sempre– si raccontano in cerchio, attorno al fuoco e di fronte alla propria memoria. Si chiamano cunti i racconti di cui siamo fatti, un numero infinito di storie appiccicate addosso che ci scorrono dentro «come il sangue e l’acqua, i ricordi e le insidie», e si dicono in cerchio per ascoltarli meglio, passando «da un orecchio all’altro, da un cuore all’altro». Di tanti cunti impastati nei sogni, nelle visioni e nei fantasmi è fatto questo libro dedicato a tutti quelli che gli somigliano e somigliano ad un’antica canzone salentina, citata in esergo: "Na sira passai de le padule e‘ntisi le ranoncule cantare. A una a una ieu le sentia cantareca me pariane lu rusciu de lu mare". Nunzia e Palmira a orchestrare il racconto, due donne intense come solo certi paesaggi, estreme nelle passioni e nelle emozioni, non in cerca di risposte ma di qualcosa buono a proteggere dal dolore delle parole, in certi giorni storte e «malate di terra rossa e cielo sbilenco», capaci di infilarsi nelle emozioni di coloro che amano come indossare un abito, e di scandire piano le parole perché restino addosso, per sempre. Nunzia e Palmira figlie di un Sud di maleficio che condanna le donne ad essere materne e ferine insieme e ad avere lo sguardo e l’odore del lupo. Un Sud nelle cui stanze il dolore è corpo e ci si sbatte contro facendosi male fino a sanguinare. E stanze che ondeggiano al ritmo della risacca della colpa, che il sole inonda devastando tutto ciò che incontra, che sono mondi abitati da tutte le vite che ci hanno preceduto e da tutti i legami impossibili da recidere, in cui non si entra bensì ci si immerge, con pavimenti su cui stendersi per sfuggire all’afa e far tornare il corpo alla terra mentre passano i morti. Un Sud di andamenti circolari, impregnato di sensi che sopravvivono alla modernità in cui si scopre di non essere fatti della stessa pasta dei sogni ma di vino infitisciutu, d’aceto e disincanto, dell’odore pungente dell’olio, di quello sfatto dei pomodori seccati al sole. Un Sud che è terra di colori «che tramortiscono i sensi» e che il vento risparmia mentre spazza il resto e sbiadiscono smettendo di respirare quando i fantasmi sorprendono la felicità degli uomini fermando il tempo. Un Sud che è bianco e nero di fronte ai dèmoni quando i colori non vogliono svegliarsi. E poi le mani. Mani con cui si nasce, si vive e si muore. Motore di ogni fremito, agli antipodi degli occhi – porte della bellezza e dell’inferno. Mani di sciamana che insieme alle visioni curano affondando nelle viscere, mani sentite prima di essere strette e di mettere in moto il tempo, mani di un amore anomalo e violento e di una madre matrigna, o di quella piccola felicità che è un padre nei ricordi sfilacciati di un’infanzia rimasta lutto mai elaborato. A mani nude provando a scacciare la morte e ricacciare nel corpo la vita. Con una mano a seguire anni di cicatrici sul corpo e dentro l’anima, nelle mani l’amore che fa fare le cose con il cuore. Perché le mani, alla fine, cercano di raccogliere tutto il sangue colato di stanza in stanza, anno dopo anno, storia dopo storia. Non si stringono impunemente le mani, qui. Mai. Un libro scritto al ritmo ossessivo di una indefinibile pizzica, primordiale nelle emozioni, arcaico nel suono delle parole, impregnato degli umori di una terra di cui restituisce il passo ipnotico e cadenzato. Una terra magica, di cunti, masserie e tamburelli, nella quale si parla a ritroso quando non si ha niente per riempire il presente, riappropriandosi della memoria con le unghie e con i denti, consapevoli che insieme al sangue – dentro – scorrono passioni e follia, amore e morte, terra e radici inestirpabili. Dove non sono solo i legami di sangue ma le corde recise a legare; corde vocali e corde del cuore. Corde strappate. Quando eri piccola non sognavi mai. Le tue compagne dell’asilo si raccontavano i sogni in giardino, con le suore che le spiavano dal refettorio. Le suore spiavano i sogni delle bambine, misurandone parole e profondità. Tu guardavi le altre bambine a bocca aperta. Stupita, ti chiedevi perché non ti era concesso di condividere questa gioia segreta. Allora, per non essere esclusa da quel cerchio tutto rosa, t’inventavi delle storie incredibili. Storie assurde, che non sembravano per niente sogni, ma incubi, di quelli che fanno bagnare il letto di notte. I sogni sono arrivati quando hai smesso di fare la bambina, quando hai smesso di sbarrare gli occhi nel buio in cerca di un movimento fugace nella stanza. E nei sogni c’erano sempre i boschi di betulle. Per un anno e mezzo hai fatto sempre lo stesso sogno: cerchi di fuoco, boschi di betulle e aghi di ghiaccio danzanti. Come i lupi, non sogni mai troppo. [...] Come i lupi abbiamo perso il gusto di cacciare. Siamo diventate donne per necessità.
Clara Nubile, Lupo, Fazi, Roma 2007
by Stefania Mola

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21 ottobre 2007

Ballo ad Agropinto: il romanzo corale e antropologico di Giuseppe Lupo

[percorsi -18]
“Hai mutato il mio lamento in danza,
il vestito di sacco in abito di festa”
Salmi 30,12
Solo da una periferia di mondo come Agropinto si poteva spiare un pezzo di paradiso
Giuseppe Lupo è lucano di nascita, ma vive a Milano, ed è uno di quegli scrittori che ha saputo arginare con intelligenza e coraggio il tono elegiaco o malinconico che abitualmente contraddistingue tanta letteratura del distacco e dallo sradicamento. Con giocosità rara e ironica ha costruito un libro dal ritmo narrativo vivace e godibile. Copertina rossa e un disegno coloratissimo che richiama un quadro di Peter Brugel. Si presenta così Ballo ad Agropinto, un romanzo corale e antropologico dal sottofondo favolistico e magico, ambientato di una piccola comunità dell’Appennino Meridionale nel nord della Basilicata.
“Abitavamo alla periferia di Agropinto, in un villaggio di baracche costruite dal governo fascista, dopo il terremoto del 1930, tra pioppi, mandorli, ciliegi, peri, finocchi, cespugli di canne e felci”.
Quella periferia è il Fosso del Pidocchio, un regno di personaggi strani e inverosimili: Gioacchino, Tarzan e Iano, una combriccola di filabustieri che “la notte vegliava e il giorno scialava”, di avventurieri, bevitori, acrobati, incantatori di serpenti, profeti, guaritori, amatori infaticabili, scommettitori litigiosi e screanzati.
Un romanzo più vicino all’affabulazione che al racconto, che utilizza lo spirito umoristico per affrontare il difficile passaggio epocale del dopoguerra e il dramma del "boom economico" in una terra marginale come quella di Lucania.

La storia di Giuseppe Lupo si snoda infatti nell’arco di un quindicennio, dal 1943 alla fine degli ‘50, periodo durante il quale la società contadina, attratta da sogni di facile fortuna emigrò verso il Nord. La vita dei protagonisti si intreccia alle trasformazioni imposte dal progresso e dalle lotte sociali. Attraverso questo microcosmo di vita, l’autore esplora anche i grandi eventi, che hanno segnato la storia del paese: la fine della guerra, il referendum del ’46, l’arrivo della corrente elettrica nei paesi del Sud, i lavori di ampliamento dell’aquedotto pugliese, i comizi elettorali, le lotte politiche tra democristiani e comunisti.

La struttura del romanzo è dinamica, incalzante, i personaggi vivono di “relazioni”, sembrano usciti da un quadro di Brugel e a loro modo sono tutti protagonisti, con le loro storie personali, le loro azioni, la loro arte di arrangiarsi. Tra tutti spicca la figura di Tano Ucciallì, uno stravagante inventore, consigliere, un po’ anche veggente e per questo l'uomo più autorevole del villaggio.
“In fondo allo spiazzo d’erba scorreva il Pidocchio, un ruscello d’acqua opaca e dal sapore ferroso che dava il nome a tutta la zona. Chi beveva, raccontava Tano Uccillì, tornava a berla almeno un’altra volta prima di morire”.
E proprio a lui si deve la costruzione di oggetti stranissimi e complicati, quale il ventilatore spulagrano, lo sciaraballo a pedali, una giostra mastodontica, un nettascarpe a manovella.

Ne emerge un affresco leggero e ironico, picaresco direi, per il tono burlesco e comico della narrazione, per i nomi bizzarri e strani di luoghi e personaggi.

E’ poi interessante ritrovare nella pasta del narrato gli indovinelli, le filastrocche, le tradizioni di un tempo, come ad esempio la lista dei doni nuziali che i cittadini del Pidocchio preparano per le nozze di Tarzan e Maria Incoronata in Contrada Servitore: le batterie di pentole, la caffettiera napoletana, un setaccio per la farina, un paio di corna taurine contro il malocchio, un paiolo di rame, un orciolo di creta, una lanterna ad acetilene, un pitale di metallo smaltato.

Una realtà da cui l’autore non è estraneo, ma in cui si immerge fino a coglierne l’essenza (senza mai abbandonare la narrazione in prima persona) e di cui ci restituisce un mondo fatto di estrema povertà e “emarginazione”, ma di umana bellezza e condivisione delle cose.
E anche quando alla fine del romanzo, una ruspa si arrampica al casello del boschetto, perché è arrivato il giorno della demolizione delle baracche costruite durante il terremoto, seppure tra mille delusioni, opposizioni, partenze, emerge comunque la consapevolezza unanime e solidale dei protagonisti che “solo da una periferia di mondo come Agropinto si poteva spiare un pezzo di paradiso”.
8 Giuseppe Lupo, Ballo ad Agropinto, Marsilio Editore
by Maria Pina Ciancio

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07 ottobre 2007

In giro per l'Italia con Alfredo Di Bitondo

[percorsi -17]

Il viaggio è stato spesso il tema evocativo di memorie e di romanzi di tanti scrittori. Il viaggio è anche il tema dell’originale libretto di Alfredo Di Bitonto dal titolo “In giro per l’Italia – La presero in giro”. Qui non troviamo però nessuna raccolta di foto dei vari luoghi; nessun resoconto scritto su qualche località o città; il viaggio si esprime invece attraverso nomi e schizzi istantanei (realizzati su un normale block – notes) dei paesi e delle città d’Italia, a cominciare da quelli della Basilicata. Il veicolo espressivo che Di Bitonto utilizza principalmente è proprio il “lettering”, cioè il disegno delle parole, che sembrerebbe trascurabile, ma che invece è stato sempre fondamentale, basti pensare al mondo dei fumetti, dove è utilizzato ad esempio, per dare un’immagine a suoni e rumori. L’accostamento è azzardato, ma si potrebbe pensare anche all’espressività dei caratteri nelle poesie e nei disegni del Futurismo. Di Bitonto percorre così attraverso i suoi schizzi istantanei, un’Italia con località dai nomi più svariati, mettendo in risalto, con i disegni, le immagini curiose che esse evocano immediatamente e giocando ironicamente sulle somiglianze (POI DAL GRAN SASSO SI SCORGE QUALCOSA – E’ UN’AQUILA – DOVE VA? DOVE SI DIRIGE? CHIETI, CHIETI! DOVE VAI ? – A PESCARA – RISPONDE – SI SI… A PESCARE MA DOVE – A FALCONARA – E Lì SPESSO VI RITORNA ANCONA). Il libretto è proprio un racconto di un viaggio nell’Italia dei paesi, in cui i nomi sono rappresentativi della ricchezza della sua storia e della sua cultura. L’intento è ovviamente ironico ed è espresso bene nel sottotitolo del libro: “e la presero in giro”. Questo piccolo viaggio, ci trasporta così nel mondo dei luoghi, nel rapporto con il territorio, che è il rapporto di un popolo con le sue vicende storiche e i suoi costumi…
Alfredo Di Bitonto nato a Potenza nel 1950, si è laureato all’Accademia delle Belle Arti di Napoli. Insegna Arte e immagine nella Scuola secondaria di I grado. L’autore oltre alla grafica e la pittura, ha realizzato fumetti, diari, manifesti vari, illustrato racconti, copertine, compendi. Usa tecniche miste, china, pastello, acquerello per una maggiore immediatezza nell’elaborazione delle immagini nella composizione. In seguito alterna varie tecniche tempera, olio e in particolare l’acrilico, variando nei temi e nei momenti di interpretazione ed espressione.
Dal 1970 ha partecipato a diverse mostre nel capoluogo potentino e in altre città d’Italia. E’ stato recensito su diversi quotidiani e periodici della stampa lucana.
Ha pubblicato un diario illustrato sugli anni 60-70-80-90 nella loro evoluzione e mutazione storico-sociale dal titolo “Storia dei luoghi comuni e delle apparenze” , La bottega della stampa, Potenza 2005.
Alfredo Di Bitonto, In giro per l'Italia - La presero in giro (testi e disegni di Alfredo di Bitonto) La Bottega della Stampa, Potenza 2001
by Saverio De Marco

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14 settembre 2007

LucaniArt intervista il poeta lucano Gennaro Grieco

[incontri -5]
E’ una "raccolta" delle "raccolte" Apprendimento di cose utili, il volume antologico che ripropone l’intero percorso artistico di Gennaro Grieco, poeta di origini lucane residente a Torino, dove vive e lavora. Sono sei le sillogi poetiche riproposte in versione quasi integrale dall'autore: "Il Viaggio Virtuale", "Rivus Niger e scritture bastarde", "La vocazione e le idee", "Le Trentadue Ottave", "Poesie inedite", "Carte di apprendistato", con prefazione a cura di Sandro Gros-Pietro, nota dell'autore, stralci critici di Squarotti e Spaziani. Un lungo viaggio fatto di passione, rigore, riconoscimenti e apprezzamenti letterari. Di questo nuovo libro ne parliamo con l'autore, per scoprire dalla sua voce com'è nata e come ha sviluppato questa sua ultima fatica letteraria.

Partiamo dal titolo. Lei ha una scrittura fondamentalmente ragionata, “petrosa” l’ha definita Enrico Cerquiglini, perché fondamentalmente scabra ed essenziale, talvolta cruda; come mai la scelta di un titolo per così dire “semplice” e con connotati dichiaratamente didascalici?

La genesi del titolo è quasi intuitiva. Semplice il titolo e altrettanto semplice la sua genesi, si potrebbe dire. L’idea di una raccolta complessiva rimanda a quella di “antologia”, e quindi al termine equivalente “crestomazia” (una delle fondamentali caratteristiche del lavoro poetico, si sa, sta proprio nell’andare per sinonimi, nella ricerca del termine non scontato del linguaggio comune nel significato denotativo). Ebbene, confesso che per lungo tempo, prima di darlo in stampa, il vero titolo di questo mio lavoro complessivo è stato Khrēstomátheia. Così è ancora nei files che conservo nel computer. Ma poi, proprio riflettendo sull’etimo di questa parola (dal greco antico khrēstós “utile” e manthánein “imparare”) ho pensato che fosse proprio il caso di esplicitarlo, il significato, in tutta la sua estensione: per l’appunto Apprendimento di cose utili. Anche perché questo titolo racchiude, tutto sommato, l’idea stessa che ho della poesia, ovvero un processo di apprendimento di cose utili alla crescita dell’uomo e della comunità in cui opera. Titolo didascalico? Sì. D’altra parte, uno dei mille difetti che mi riconosco sta in certo tono pedagogico (dal quale, temo, non riuscirò mai ad affrancarmi del tutto).

So che sta lavorando da qualche anno a questo progetto, ma ad opera ultimata che cosa ci può raccontare su questi suoi 30 anni di intensa attività poetica e letteraria?

Sì, è vero, Apprendimento di cose utili è il libro dei miei primi trent’anni di poesia, nel senso che i testi, tutti rigorosamente datati, coprono un arco temporale che va dal 1971 al 2001. E tuttavia occorre precisare che il mio impegno sul campo, per così dire, è ben più recente. Ho il culto del tempo (per certi versi è una schiavitù), ed allora ho una data precisa per il mio ingresso nel mondo della parola scritta, da intendere nel senso di un impegno non episodico o di tipo dopolavoristico. Era la notte fra il 31 dicembre 1989 e il 1° gennaio 1990. E quella notte, dopo un veglione mancato all’ultima ora, scrissi Sogno dell’ultimo dell’anno, la prima poesia nata con l’intento di renderla pubblica. Difficile da spiegare in una intervista come questa, perché occorrerebbero molte parole. Ma, ecco, c’è di mezzo il fascino particolare che per me, spirito profondamente laico, ha sempre rivestito un giorno come il 31 dicembre (anzi la notte, precisamente la fase di passaggio dal vecchio al nuovo, e quindi la nascita, la speranza…). Tra l’altro, non so quale significato possa avere, ma erano le prime festività di fine anno che trascorrevo a casa “mia”, a Rionero, dopo ben diciassette anni di permanenza a Torino. So che quella notte dissi: basta! Non finiva solo un anno ma un decennio, quello della definitiva affermazione della società dell’immagine, dello yuppismo, della Milano da bere, del craxismo, insomma un decennio orribile per chi come me aveva vissuto in prima persona la grande stagione di lotta e di speranza degli anni settanta. Dissi – ingenuamente – basta. Come a dire: è ora di fare qualcosa, di contribuire al tentativo di arginare la piena. E, sta qui l’ingenuità, pensavo di farlo con la parola: non sapevo il deserto nel quale mi sarei avventurato…
Ad ogni modo, che siano quindici, venti o trent’anni non cambia molto. È però vero che ho vissuto questi anni con grande intensità (tanto che mi pare un secolo). Magari, ogni tanto, con qualche salutare pausa di riflessione, ma tutto sommato con una tale partecipazione, un tale coinvolgimento che si può dire sia stata la poesia a scandire gran parte del mio calendario. Ho girato in lungo e in largo per la penisola, soprattutto per via dei premi letterari (un fenomeno, questo, che sarebbe tutto da studiare). E ne ho viste di cose. Ed ho conosciuto persone straordinarie, dal magistrato di alto rango alla casalinga, dal barone universitario all’operaio, dalla sartina all’affermato professionista, ma tutti accomunati da questa incredibile passione per la poesia. Ho già detto più volte su questo aspetto, e cioè sul fatto, degno di assoluta considerazione, delle tante, ma proprio tante persone che, magari nella provincia più remota, tentano di farsi argine alla dilagante piena di nichilismo, all’avventurismo più fatuo, in una parola alla piaga dell’autolesionismo che sembra caratterizzare l’uomo del nostro tempo. E lo fanno inopinatamente con la poesia, ovvero con la parola, una parola non disgiunta, tuttavia, il più delle volte, dal dato comportamentale, dal farsi cioè esempio quotidiano di serietà e lungimiranza: insomma un vero e proprio atto d’amore.
Ecco, oggi posso solo aggiungere che magari queste persone non faranno la storia della letteratura (una storia, peraltro, determinata da ben altri e spesso discutibili fattori, e che forse anche per questo è una storia che esula dalle loro primarie preoccupazioni), ma certamente costituiscono, a mio modo di vedere, l’asse portante del movimento poetico dei nostri giorni. Asse portante, lo ribadisco, soprattutto in una fase caratterizzata dall’incredibile paradosso di essere rappresentati al vertice da una sostanziale mediocrità. Questo, almeno nel nostro Paese, è il fatto nuovo, il fatto davvero inedito di questi ultimi lustri: a fronte di una moltitudine (che non è necessariamente un dato negativo, anzi) di nuovi votati alla nobile arte della scrittura, a fronte di una marea che ha la sua origine innanzitutto nella scolarizzazione di massa (e, in stretta connessione, in una sempre più diffusa consapevolezza dei propri diritti di cittadinanza) e che ha la sua definitiva affermazione con l’avvento di Internet, ovvero delle democratiche potenzialità del web, si assiste ad uno spaventoso restringimento dei canali di accesso ai luoghi da sempre deputati a “storicizzare” l’evento letterario. Crisi delle “istituzioni”, anche qui, vista vuoi nel senso di una sostanziale scomparsa della figura classica dell’editore che rigorosamente sceglie e dà autorevolezza, vuoi nella latitanza di una critica sempre più notarile e peraltro permeabilissima, vuoi nella pochezza di un’informazione che tale più non è, e da tempo, ma che piuttosto si caratterizza, senza dignità alcuna, come propaggine dei disegni immancabilmente politico-finanziari, ovvero di potere, di questo e quello. Decadimento dei costumi, anche qui – ed è proprio questo il deserto cui più sopra accennavo –, dove, per dire, è ormai consolidata consuetudine la pratica nella quale noi italiani davvero eccelliamo, ovvero la più becera cooptazione amicale, se non addirittura parentale. Nessuna illusione circa l’esistenza di oasi felici, per carità! Ma, insomma, anche con la poesia? Addirittura con la poesia? E per quali misteriosi interessi? Quella, la poesia, per sua natura è come una sorta di precarissima montagnola (di pasta tenera, friabile assai). Eppure, c’è chi ha visto bene di attestarsi (e atteggiarsi) sulla sommità di un simile avamposto, con l’unico sforzo di menare vigorosi calci sui denti e di ricacciare quanti a vario titolo tentino l’ascesa. Mah, vai a capire! Mi sembra, oltretutto, uno sforzo vano. Perché, non c’è dubbio, nemmeno loro passeranno alla storia.

Solitamente un lavoro antologico (o "diario poetico" come lei preferisce chiamarlo) chiude un cerchio che evidentemente non è solo di linguaggio e di esperienze letterarie. "Apprendimento di cose utili" rappresenta un po’ un punto di svolta anche di vita?

Direi di sì, alla fin fine. Più sopra parlavo di “pause di riflessione”. Ecco, quella più consistente (e dolorosa – potrebbe essere interessante, in certo qual modo istruttivo riportarne le ragioni, ma temo che non sia questa la sede adatta) l’ho avuta a cavallo dello scorso decennio, complice anche il mio trasferimento in provincia, ai piedi delle Alpi, sempre più lontano dai rumori della grande città. Al rientro (perché non si può sfuggire alla propria natura…), sul finire del 2001, mi posi come obiettivo primario proprio la pubblicazione di una raccolta di tutti i miei lavori. Mica tanto inconscia, evidentemente, l’idea di lasciarmi alle spalle, “specialmente nello spirito – scrivo in una nota di Apprendimento… – , la lunga e oltremodo altalenante giovane stagione della mia esperienza poetica”. D’altra parte, anche il fatto anagrafico ha il suo peso: superato il traguardo dei cinquanta, sono – nemmeno a dirlo – un altro uomo. A parte gli affetti familiari, ovviamente, la scrittura è tutto quello che mi resta. E magari, chissà, il bello deve ancora venire…

L’antologia raccoglie tutte le sue opere in lingua italiana, ma esclude i suoi versi in dialetto lucano. Come mai questa scelta?

Come già precisato, Apprendimento… abbraccia un arco temporale che va dal 1971 al 2001. L’esperienza dialettale, del tutto inaspettata, ha inizio solo nel 2003. Ma, a titolo di cronaca, è soprattutto su questo versante che oggi cerco di lavorare, con rinnovata passione. Avevo un fiume dentro e non lo sapevo: ora vorrei incanalarlo verso il giusto mare.

Nell’arco di trent’anni, dal 1971 al 2001, la sua poesia ha visto nascere ed evolvere diversi orientamenti e tendenze poetico-letterarie. Lei come collocherebbe la sua opera in questo scenario culturale?

Ricordo ancora quello che diversi anni fa, almeno una dozzina, ebbe a dirmi (non senza favorevole stupore) Ada De Judicibus Lisena, fine poetessa e squisita signora che opera a Molfetta, in Puglia: “Gennaro, ma tu fai una poesia europea!”. Ecco, credo che volesse significare il mio operare fuori da un certo lirismo tipicamente italiano, montaliano anzi che no. Non so… Io, tra l’altro, ho dato alle stampe questo mio lavoro complessivo, questa “prima metà del diario”, come l’ho definita, anche per tirare un po’ le somme, anche sperando che quel che resta della critica “ufficiale” potesse, sulla base di un lavoro organico, bello ordinato, offrire un qualche, attendibile ragguaglio, uno straccio di rendiconto, insomma. Ma come si fa? Immagino che sia difficile scomodarsi. Per quanto più sopra sottolineato, non avrei molto da sperare… Però aspettiamo, vediamo…
Per parte mia, posso dire che non è che sia del tutto casuale l’aver debuttato relativamente tardi (più vicino ai quaranta che ai trenta). Di certo, c’entra anche il fatto di volermi infine proporre, come dire?, già con un timbro personale, in qualche modo riconoscibile, senza scimmiottamenti di sorta (ché, di quelli, davvero non si avverte mancanza alle nostre latitudini). E posso aggiungere che ben presto ho pensato di privilegiare l’aspetto formale rispetto al contenuto, nella convinzione che proprio in questo, e cioè nello stile, stia il discrimine e, arrivo a dire, la giustificazione stessa dell’ennesima proposta. C’è una nota di Luciano Nanni, una delle prime su Apprendimento…, che giunge a proposito: “L’ampio arco di tempo permette una valutazione più completa se non definitiva. L’escursione formale dei testi è retta dallo stile, disposto sempre in funzione dei contenuti; così anche un calligramma (p. 205) è vincolato all’evento e a una sua ‘interpretazione’. Là dove la sintesi – comunque presente – acquisisce la struttura versale come significante metrico-visivo, si hanno gli esiti più alti; si veda Il palco con il folgorante incipit ‘L’occhio meccanico cerca il rito e il gesto forte. / Tu sei, tu consisti’. La voce di Grieco risulta qui inconfondibile”. Ecco, a parte la questione della “sintesi” – c’entrano qui magari i gusti personali, e per quanto mi riguarda prediligo comunque un testo ben strutturato, con uno sviluppo, una “storia” – mi fa decisamente piacere, a prescindere dall’eventuale giudizio di merito, che si sia comunque rilevata questa mia particolare attenzione al dato formale. Che poi sia la forma funzionale al contenuto, o piuttosto, rovesciando i termini, il contenuto “piegato” all’opzione stilistica, come io credo di poter dire, è questione che rischia di essere quasi oziosa. Sta, comunque, almeno finora, in questo tentativo di ingabbiare in un dettato a volte persino classicheggiante il dato contingente, l’aspetto spesso scabroso del nostro storico divenire (e quindi quanto di più difficile, se non altro per l’altissimo rischio di scadere nella retorica), il tratto distintivo della mia poesia. Dico almeno finora, e cioè per quanto sin qui pubblicato, perché in ogni caso mi reputo un autore “plurale”, mi piace sperimentare percorsi diversi, ho persino, quasi del tutto inedita, quella che reputo una sorta di scrittura parallela.
Dove collocarmi? Non credo che spetti a me stabilirlo. Auspicherei solamente uno sforzo volto al superamento delle tradizionali categorie di analisi, che la si smettesse una buona volta, in altri termini, col vezzo delle facili etichette – poesia civile, filosofica, sapenziale, politica, esistenziale e quant’altro – graduando il tasso di “impegno” di una scrittura. La poesia è sempre civile, è sempre un fatto d’impegno. Se non altro per il tempo che sottrae ad altre, meno edificanti occupazioni.

Ci piacerebbe conoscere poeti l’hanno formata e quali ancora legge?

Domanda classica, questa. E non priva di insidie per uno come me abituato a essere molto franco. Rischierei, infatti, di essere tacciato di superbia se affermassi che non ho riferimenti di sorta. E se aggiungessi che non credo poi molto a questa storia dei “padri” o dei “maestri” in letteratura. Ma d’altra parte è proprio così.
Oddio, ora che mi sovviene, il termine “maestro” l’ho usato anch’io una volta. Fu, precisamente, quasi quindici anni fa, in una corrispondenza privata con Dante Maffìa. Ricordo che rimasi molto colpito dal suo libro La castità del male (premio Montale nel 1993 a Torino, in occasione del quale per l’appunto ci conoscemmo), uno di quei libri che lo leggi e pensi: “Avrei voluto scriverlo io”. Mi resi subito conto dello spessore, poeticamente parlando, del personaggio, e proprio per questo non riuscivo a capacitarmi del fatto che un simile autore giungesse, non solo a me, quasi sconosciuto. Certo, non mi ci è voluto molto a capire come vanno le cose, a capire che la notorietà – che per la poesia è comunque sempre un fatto piuttosto relativo e circoscritto – non è necessariamente in rapporto direttamente proporzionale alla qualità della proposta, ché, anzi, forse mai come in questa fase storica, caratterizzata da una inaudita degenerazione dei costumi in ogni aspetto della vita sociale, è più che altro prerogativa di uno sparuto gruppo di introdotti a corte, ovvero di presunti consulenti editoriali che si distinguono per la pervicacia nel pubblicare esclusivamente se stessi e qualche raro accolito (vecchio vizio nostrano questo, per la verità, solo che un conto è un Sereni o un Calvino, altro conto è…). Ma, insomma, Maffìa è – ed era già allora, quindici anni fa – un grande poeta, lo è in lingua e forse ancora più in dialetto (una parlata che posso apprezzare senza soverchie mediazioni perché lui è calabrese di Roseto Capo Spulico, quasi ai confini con la mia, anzi la nostra Basilicata). O sta proprio in questa grandezza di poeta il fattore di disturbo per gli asserragliati sulla cima della precarissima montagnola? Non so come dire, ma credo che un po’ si sia capito come la penso: io tendo a parteggiare, a schierarmi. E mi schiero non necessariamente e semplicisticamente dalla parte del cosiddetto più debole, ma di chi merita (ovviamente secondo una valutazione che è certamente soggettiva, ma comunque improntata al massimo rigore). Ecco, chiamare “maestro” Maffìa, quella volta, più che una dichiarazione di figliolanza letteraria, più che una sorta di adesione progettuale, mi è sembrato un personale omaggio al merito di un autore significativo, una testimonianza quasi come atto di rivalsa. Ma, come detto, non credo nei maestri o nei padri. Anche perché, storia della letteratura alla mano, ce ne sarebbero magari così pochi che la questione non avrebbe ragione di essere. Ciò, beninteso, se con tali termini si vuole intendere chi si è distinto per luce assoluta e totale assenza di ombre. E sappiamo che, in realtà, anche la storia dei grandi è costellata di alti e bassi. Come non credo, d’altra parte, a certi rapporti di dipendenza, di quasi deterministica parentela, o ad amenità del tipo “linea lombarda” piuttosto che siciliana o cinese. Penso, piuttosto, che al di qua di una certa soglia di dignità, ovverosia nel novero di autori in qualche modo significativi, ognuno vada per la sua strada. Ognuno conduce – e il bello è proprio questo – la sua sfida: con la sua storia personale e il suo bagaglio culturale che, giova sottolinearlo, sono fattori irripetibili.
Io amo la parola e ad essa mi affido. Insomma, per essere ancora più chiaro, mi affido al testo piuttosto che al curriculum di un autore (che si può sempre costruire ad arte). Sì, va bene, con la poesia siamo nel regno del soggettivo per eccellenza, ma alla fin fine, la parola, se c’è si rivela. Altrimenti, per l’appunto, non c’è curriculum che tenga. Anche perché, come sappiamo, la storia è spesso mistificazione, è solo e semplicemente la risultante di rapporti di potere, e dunque quello che viene tramandato non è necessariamente “il meglio”. Pensiamo per esempio a chi, magari fra un secolo, si troverà a studiare la poesia di questi nostri anni: avrà fra le mani, con ogni probabilità, i materiali di certi mondadoriani senza sangue il cui tasso poetico è pari – se non inferiore – a quello di un libretto di istruzioni di un elettrodomestico.
Io amo la parola e ad essa mi affido con la più ampia apertura, senza preclusioni di sorta. E, per quanto appena detto, con un occhio orientato più al presente che al passato. È questo il mio tempo, è questo il linguaggio di cui mi nutro, è questo il mondo (di gran lunga più complesso) che vivo. Per cui, per certi versi, può intrigarmi più uno dei mille poeti di provincia dei miei giorni che un “classico” consolidato. Quest’ultimo bisogna pure che lo si legga, certo: si deve. Ma è proprio di interesse che io parlo, di piacere della lettura. Anzi, di interesse nella duplice accezione di utile e, per l’appunto, possibilmente dilettevole. Questo è un aspetto di primaria importanza ai fini del processo formativo di una persona. La nostra formazione, infatti, è solo in minima parte un percorso consapevole, ovvero quello istituzionale teso all’acquisizione di una griglia di base, dei rudimenti del “mestiere”. Per il resto si lega a una nozione di piacere, nell’accezione più ampia, che è prerequisito fondamentale, è la condizione indispensabile perché il mero dato venga assimilato: perché divenga, cioè, effettiva conoscenza e ci connoti.
Non è quindi propriamente facile discernere fra gli autori e/o le opere che più di altri possono aver contribuito alla propria formazione. Soprattutto per chi come me ha letto e legge di tutto. È sempre stato il mio pallino (o il mio limite, in un mondo sempre più teso alla specializzazione, alla parcellizzazione): abbracciare l’universo intero, sapere magari poco ma di tutto. E tra l’altro va considerato che la mia formazione istituzionale, scolastica, è sì di tipo umanistico (sociologica, per la precisione), ma non certamente letteraria (quella, d’obbligo, verrà dopo). Infine, si sarà forse capito, propendo, in virtù di una sorta di diffidenza di tipo metodologico, magari più verso i cosiddetti outsider. Fatto sta che da giovane preferivo leggere, per es., un Raffaele Carrieri o un Rocco Scotellaro piuttosto che i soliti Montale e Ungaretti. E alle ragazze regalavo le poesie d’amore di Jacques Prévert (caso a parte mia moglie, alla quale regalai per l’appunto Scotellaro suscitando una perplessità fugata solo successivamente, quando capì il “privilegio” mettendolo in relazione all’incredibile orgoglio che ho delle mie origini). Lungo, davvero lungo sarebbe l’elenco dei poeti che in qualche modo apprezzo: in parte Pasolini, un certo Quasimodo suadente, Luzi, che forse in assoluto è quello che più mi convince nel complesso dell’opera, i poeti russi e Majakovskij in particolare, quelli sudamericani come ad es. Paz, Neruda, Borges, e poi anche Louis Aragon, la Wislawa Szymborska… tanti. E poi una curiosità (che, non so, magari può anche avere una qualche valenza da un punto di vista psicoanalitico): insieme all’incipit di un mio testo del ’94, Il reportage (Ciò che mi par di capire è di tenerezze infinite. / E di scoramenti. E di distacchi mai compiuti.), col quale spesso la notte mi addormento, la poesia che forse più di ogni altra mi è tornata a mente, dall’infanzia ad oggi, è Pianto antico di Carducci. Faccio questa annotazione un po’ peregrina per sottolineare che non è che si trascurino certi nostri “classici”, anche se ai tempi della scuola dell’obbligo più che altro ce li hanno fatti ingoiare (e quindi una qualche rimozione è del tutto naturale che possa esserci stata).
Venendo all’oggi, ai nostri contemporanei, premetto che ormai nove volte su dieci mi pento, a posteriori, di aver speso i miei soldi per la lettura di ciò che offre la cosiddetta grande editoria (che poi in sostanza non è altro che la galassia mondadoriana). Una lettura che pur bisogna fare, per “dovere professionale”, ma che di questo passo finirò – e mi pare di poter dire che non sono il solo – con l’abbandonare. Questi non si rendono conto del grave danno che ormai da tempo stanno procurando all’immagine della poesia. Anzi a volte mi chiedo se certe scelte editoriali siano solo frutto della loro insipienza o addirittura rispondano ad un preciso disegno di definitivo affossamento del genere letterario più nobile. Vogliono farsi belli tenendo in catalogo un prodotto che – dicono loro – economicamente non rende, ma poi nulla fanno per presentarlo al meglio, per selezionare ciò che il movimento poetico effettivamente esprime. E poi, diciamocelo francamente, non è che se uno ha scritto, poniamo nel 1976, un buon libro, debba giocoforza restare in catalogo per tutta la vita pur non esprimendosi con gli stessi standard. Qui non si tratta di (o voler far credere di) fare i filantropi, ma semplicemente di operare delle scelte di rigore (o quantomeno attendibili), verso le quali il pubblico della poesia certamente saprebbe rispondere con favore (come del resto ha dimostrato una decina di anni fa proprio con la collana “I Miti” della Mondadori). E si tratta di prendere atto, una buona volta, del fatto che soltanto con una miope visione di comodo si può pensare oggi di ridurre tutta la poesia italiana ad una sola dozzina di nomi. Del resto, basta andare su Internet per farsi un’idea, basta navigare a caso per scoprire, pur fra tanta, inevitabile spazzatura, un incredibile tesoro di creatività, un fiorire continuo di proposte di nuovi, spesso giovani autori che, per dirla tutta, darebbero dei punti anche a certi presunti poeti laureati, se li metterebbero anzi bellamente nel taschino. Se non le decine di migliaia di (comunque lodevoli) cultori del verso, ci sono in questo paese centinaia di degnissimi autori che avrebbero tutto il diritto di essere presi in reale considerazione.
Ma tornando comunque a bomba, detto già di Maffìa (del quale ho da ultimo letto l’ottimo dialettale Papaciòmme, pubblicato da Marsilio), altri autori importanti, nell’odierno panorama, che leggo con interesse, sono senz’altro Remo Rapino (splendidi gli ultimi volumi di poesia Cominciamo dai salici, Crocetti, e La profezia di Kavafis, Mobydick, ma l’opera più recente è il sorprendente romanzo Un cortile di parole, uscito nei mesi scorsi), Paolo Sangiovanni (che ha all’attivo una ventina di plaquettes, una più bella dell’altra e tutte rigorosamente pubblicazioni-premio), Fabrizio Bianchi, Benito Galilea, Ivan Fedeli, Daniela Monreale, Fabio Franzin (dialettale di vaglia con il recentissimo Mu.scio e roe, Le Voci della Luna Poesia), Enrico Cerquiglini (felice scoperta degli ultimi tempi con i suoi Vendette azteche e Tra nebbia e fango, entrambi da Campanotto), Daniela Raimondi, Stefano Guglielmin (del quale non conosco i primi libri ma molto convincente mi pare quest’ultimo La distanza immedicata, Le Voci della Luna Poesia), la nostra conterranea Assunta Finiguerra (altra dialettale di vaglia, godibilissima), e cito infine due fra i tanti giovani molto promettenti: Elio Talon e Valentino Ronchi. Ma, davvero, potrei continuare a lungo, dicendo ad es. di altri autori (Vetromile, Luiso, Vicaretti, Caso…), onestissimi artigiani della parola, con i quali, anche, oltre a molti dei già citati, mi ritrovo spesso in giro per l’Italia in quello straordinario happening costituito dalle manifestazioni a premi (che, se non altro, sono occasioni d’incontro, hanno il grande merito di portare la poesia fra la gente, e, sia chiaro una volta per tutte, certamente contribuiscono a stabilire una – questa sì attendibile – gerarchia di valore). Per l’appunto: come già detto, in Italia oggi ci sono almeno due-trecento autori che potrebbero tranquillamente essere ospitati nelle più note collane. E a guadagnarci sarebbe innanzitutto il buon nome della poesia.

Lei è originario di Rionero in Vulture, in provincia di Potenza, ma vive da ormai oltre trent’anni a Torino. Le sue radici lucane quanto hanno influito e come si sostanziano nella sua poesia?

In effetti mi vedo come “l’uomo delle due terre” (parimenti amate). O come un albero che si distende per ben 960 Km: le radici ben salde nella fertilissima, vulcanica terra vulturina; il tronco lungo tutta la penisola, ad abbracciarla; la chioma al vento delle (pre)Alpi. Il punto è: in un albero sono più importanti le radici o vale piuttosto la chioma? Mi pare che non possano esservi dubbi. E d’altra parte, a dimostrarlo è questa vena dialettale che mi è venuta in dono negli ultimi anni: mi è venuta, cioè, nella lingua di chi mi ha generato (mentre in piemontese, per dire, dopo quasi trentacinque anni, non saprei mettere insieme una frase di tre parole). A Torino, per puro caso, senza averlo assolutamente pianificato, ci sono arrivato a vent’anni. Ero dunque già un giovane uomo, con un sistema di valori già ben delineato (anche perché accelerato da vicende familiari – leggi la morte di mio padre, io primogenito appena quindicenne – che non potevano non avere il loro peso). E io vengo da una civiltà contadina, vengo dal popolo dei vinti. Credo che più di qualsiasi risposta possa valere la lettura del mio breve poemetto Rivus Niger (ovviamente riproposto in Apprendimento…). E poi, onestamente, Scotellaro, di cui prima parlavo, non è che sia stato propriamente un grandissimo poeta (povero Rocco, doveva ancora affinarsi, non ha fatto in tempo). Ma mi è forse più caro di chiunque altro perché io da lì vengo, dal suo stesso mondo (un mondo nel quale io nasco giusto quando lui prematuramente muore, nel 1953…). Avrei finito per fare anch’io il sindaco del mio paese, forse, se non me ne fossi andato. E non è una battuta (e nemmeno un rimpianto, per carità!), perché ero sulla stessa strada, perché anch’io ho fatto, giovanissimo, le stesse battaglie politiche. Dallo stesso fronte.

In conclusione, nel farle gli auguri per questo prezioso lavoro, le chiedo di raccontarci qualcosa sui suoi progetti futuri.

Intanto, grazie per gli auguri. Quanto ai progetti, ne ho tre o quattro. Ho una raccolta in lingua pronta già da qualche anno per la pubblicazione (ma temo che la terrò inedita ancora per un bel po’). Stesso discorso per una seconda raccolta in lingua (ancora da completare, per la verità). Questa però è “particolare”: è composta da quelli che io chiamo “recitativi”, testi tutti della stessa dimensione (40 versi, perlopiù lunghi) in quella scrittura parallela di cui prima davo cenno. Vorrei però dare priorità, per farne un libro magari già all’inizio del prossimo anno, sia a un progetto narrativo nato una dozzina di anni fa e mai portato a termine, sia a quella che dovrebbe essere la mia vera prima raccolta dialettale (Lu cunt’ r’ lu frat’ è stato poco più di un gioco). Ci sarebbe pure qualche altra ideuzza, ma ho imparato con gli anni che con la scrittura non si può pianificare più di tanto. Più che la linearità di un fiume, la scrittura ha il flusso incostante di un torrente (già: proprio come me, adesso che ci penso).
by Maria Pina Ciancio

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17 agosto 2007

Assunta Finiguerra: la parola come lavacro di purificazione

[percorsi -16]
E’ una poesia in dialetto lucano sanfelese, quella di Scurije, legata al parlato, al respiro, alla cadenza della musica, filtrata dal linguaggio della visione e del mito.
La parola di Assunta Finiguerra è immediata, primordiale, ed esplode lavica dal foglio: è “il bisogno di un secchio d’acqua” , è la bestemmia a “Cristo e la Madonna”, è lo “squartare coi denti”, “ingoiare sale con l’imbuto”.
Pulsa nelle vene e nelle tempie con l’ardore che ha il fuoco sotto la cenere (“re ffuoche de l’Inferne”), soffia e sbatte dentro l’otre scuro e cavo del petto, talvolta con ferocia corale, talvolta monocorde, talvolta placandosi un po’ “sapisse che stanchezze tenghe a notte/ quante l’àvetje dòrmene sope e penziere/ e a lune sembe eterna curriére/ caresce luce da nu ciele a l’àvete (sapessi che stanchezza ho la notte/ quando gli altri dormono sui pensieri/ e la luna sempre eterna corriera/ trasporta luce da un cielo all’altro). Senza pudore, graffiando e scalfendo labirinti di solitudine, tirando fuori demoni e fantasmi che la abitano. Contaminando. Identificando. Evocando. Plath, Cvetaeva, Teskova, Rosselli “quanne venghe preparateme nu liétte / nde pozze dorme tranguille e aspette / u juorne d'u giudizzje aunite a vvuje (“Amelia e Anna, Marina e Sylvia/ quando verrò preparatemi un letto / che possa dormire tranquilla e aspetto / il giorno del giudizio insieme a voi).
Uno scavo asciutto e spietato nel furore della storia, in una selva multiforme di topos e immagini, riconosciuti e riconoscibili del nostro Sud più arcaico.
Un viaggio nei labirinti dell’oscurità (scurije) fatto di autopunizione ed espiazione “m'aggia appecà a l'albere de Giude” (mi impiccherò all’albero di Giuda), “m’hanna arse pecchè ere na mascijare” (mi hanno bruciata perché ero una strega), “me trove nda re ffuoche de l’Inferne” (mi trovo dentro il fuoco dell’inferno), “inde o cuambesande d'i dannate” (dentro il cimitero dei dannati), “m’hanna accise a sere de natale/ nda na chiazze crocefisse da i viénde” (mi hanno uccisa la sera di natale/ in una piazza crocifissa dai venti), un ritmo tamburato e teso, dove le parole stesse diventano un lavacro di purificazione “il rifugio di un guscio di noce”, “una tenda come sipario”, in cui placare la collera e la rabbia, la “frenesia che non dà pace”.
Scurije è un libro forte, dove pulsa tutta la corposità e la naturalità del dialetto lucano, la primigenia esperienza, la regressione arcaica di un dire che ha corpo, sangue e nervi, in cui tutto è diretto e frontale “o vita guardami in faccia”, “ho il vizio della vita come i gatti”.
Una poesia lavica e viscerale “una estrema dichiarazione di vita alle porte della morte” –scrive la poetessa di San Fele sul senso della poesia–“conforto al mio cuore in guerra per non avergli saputo dare il mondo”.
Assunta Finiguerra, Scurije, Collana Il Graal, Edizioni Lieto Colle, 2005

Assunta Finiguerra di San Fele ha pubblicato le raccolte Se avrò il coraggio del sole (Basiliskos 1995) in lingua, Puozzė Arrabbią (La Vallisa 1999) Rėsciddė (Zone editrice 2001) in dialetto sanfelese, Solije (Zona editrice 2003), Scurije (Lieto Colle 2005), ottenendo diversi riconoscimenti letterari, tra cui il primo posto al concorso «Giuseppe Jovine», Premio Nazionale di Poesia Dialettale Giacomo Floriani, il premio «Lanciano», di cui è stata finalista, e il «Città di Trento», con una menzione speciale.
Suoi testi poetici sono apparsi su Pagine, Periferie, Poesia, Lo Specchio, L'Area di Broca, Capoverso, Ciemme, Gazzetta Ufficiale Dialetti e in diverse antologie tra le quali: Nuovi Poeti Italiani a cura di Franco Loi, Einaudi Editore.
E’ stata recensita su Il sole 24 ore, Nuova Antologia, La Vallisa, Nuova Tribuna Letteraria, Incroci, Vernice, Il Segnalė, Il Cristallo, Capoverso, Atelier, Poiesis, Lunarionuovo, Gradiva, Polimnia, l'Altrareggio, Bari Sera, Sìlarus, L'Immaginazione, Forum Italicum... Nel 2006, all'Università la Sapienza di Roma, Alessia Santamaria ha discusso una tesi sulla sua poesia, relatore Ugo Vignuzzi.
by Maria Pina Ciancio

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06 agosto 2007

L'intervista di LucaniArt alla scrittrice Berarda del Vecchio

[intervista -4]
Abbiamo intervistato Berarda Del Vecchio, giovane scrittrice di origine lucana, il suo ultimo lavoro Sdraiami edito da Castelvecchi è ormai un vero successo. Conosco l’autrice da diversi anni. L’ironia, la freschezza e l’intelligenza viva che vengono fuori dalle pagine di “Sdraiami” sono caratteristiche che appartengono alla sua persona. Con disponibilità, e soprattutto con rara gratitudine Berarda ha risposto ad alcune domande, attraverso le quali vorremmo fare un po’ di chiarezza su un libro che ormai è sulle bocche di tutti. Mi auguro che in questa opera di lettura, passi innanzitutto la sana presa in giro e la leggerezza con cui si vuole affrontare un tema molto discusso: la crisi dell’identità maschile.

Allora Berarda, felice di questo straordinario successo? La gente ti riconosce per strada? Raccontaci…

No, no, ancora no…bhè tranne alcuni conoscenti con cui ho lavorato in un bar a Roma che quando sono tornata lì a prendere un aperitivo mi hanno detto di avermi vista in televisione al programma di Bonolis o alle Falde del Kilimangiaro. Strano davvero. Per me anche un po’ imbarazzante!

Nel tuo lavoro si snocciolano diverse storie, molte delle quali raccontate da persone amiche, altre lievemente appartenenti alla tua biografia, perché hai sentito il bisogno di scriverle?

Forse perché stavo messa davvero male… Il libro è nato un po’ per scherzo parlando di storie andate storte con Elisa Passacantilli, vice direttore editoriale alla Castelvecchi. Poi l’idea è piaciuta all’editore…ed ecco il libro. Quando l’ho visto “in carne e ossa” o meglio in pagine e bandelle mi sono sentita liberata come avessi attraversato una catarsi tutta personale!

Usi molto l’ironia nella narrazione, ma so che alcune delle storie raccontate le hai vissute da donna. E’ stato terapeutico risolvere molte delusioni con una sana presa in giro dell’uomo contemporaneo, sempre alle prese con lugubrazioni, con la precarietà dell’esserci e soprattutto con l’ansia di non essere abbastanza?

Oltre che liberatorio, come ho detto prima, è stato molto gustoso! Durante la scrittura di alcune pagine mi sentivo così felice e soddisfatta che avrei continuato per ore a digitare nuove storie sullo schermo del computer!

Soffermiamoci ora sull’aspetto più identitario e sociologico: ritieni più responsabile, per lo sfaldamento degli assetti della coppia, il maschio perchè non più all’altezza di dare risposte esaurienti alle nuove richieste della donna emancipata o la donna divenuta troppo aggressiva ed esigente per il ruolo più evoluto che ricopre socialmente?

Sicuramente la colpa, se proprio di colpa si deve parlare, va ripartita a entrambi gli universi, quello maschile e quello femminile; funziona un pò come in tutte le “classiche” storie andate male, la colpa non è mai solo da una parte. Qui l’unica differenza è che le donne avevano e hanno tuttora il diritto di rivendicare i propri diritti, troppo spesso ancora negati, e per questo diventano più aggressive. In fondo quando mai una donna dolce e affettuosa viene presa in considerazione lavorativamente? Perciò la colpa ricade in percentuale maggiore sugli uomini che non si sono saputi/voluti adeguare ai nuovi cambiamenti delle loro compagne. Il femminismo mica lo si è fatto per far regredire e rimbecillire l’uomo, no?

Il tuo libro strappa un sorriso a tutti, e solo per questo dovremmo ringraziarti, parli anche delle prime esperienze adolescenziali nel paese di Trecchina, in Lucania, cosa ha rappresentato per te questo luogo? Se dovessi ritracciare brevemente il tuo percorso esistenziale, quanto ritieni abbia centrato con il piacere della scoperta la vacanza estiva in provincia?

Trecchina la adoro. E’ il mio “posto delle fragole” dove un paio d’anni fa sono riuscita a rimettermi in piedi dopo un periodo davvero difficile.
Il paese è stato un luogo perfetto per i primi baci e le prime scoperte. Si stava in vacanza, tutti erano più rilassati, e lo spirito vacanziero concedeva anche più libertà a noi adolescenti. Rispetto a una grande città come Roma qui si potevano passare serate romantiche a guardare le stelle alla Forraina o facendo lunghe passeggiate fino al Castello…L’unico problema era che poi, come in tutti i piccoli centri, c’erano le male lingue…

E’ il secondo libro che dedichi agli amici di Trecchina, quali sono i cinque valori più importanti della tua vita e quanto conta quello dell’amicizia?

Per rispondere a quanto conta per me l’amicizia basta dire che la metto al primo posto. Poi direi l’amore, che per fortuna in questo periodo va alla grande! Il terzo posto se lo prende la sincerità, a seguire il rispetto, e infine la stima per se stessi che troppo spesso trascuriamo.

Che cos’è la femminilità per te?

Domandone… le pin-up degli anni ’50. Le adoro follemente.

A quale delle storie raccontate sei più affezionata? Quale, invece, ti sembra abbia più appassionato i lettori?

Ovviamente sono più affezionata alle storie della mia adolescenza. Quando poi ho scritto del mio primo bacio mi stavo anche commuovendo.
Ai lettori credo, invece, che piacciano di più quelle disastrose dell’ultimo periodo. Fanno sicuramente molto più ridere…soprattutto quella con il mio sfogo al ristorante, in cui urlo “sdraiami!!!”.

So che hai finalmente incontrato una persona speciale, che ti ha dato la serenità che cercavi e probabilmente anche la forza per buttare un occhio distaccato su tutto il resto, su quella tipologia di uomo che effettivamente ha perso la voglia di conquistare e di corteggiare. Il tuo ragazzo è svedese, se dovessi dare un consiglio ai nostri uomini italiani, quale ti sentiresti di dare come assolutamente prioritario?

Siate talmente sinceri da sembrare quasi sfacciati! Se una ragazza vi piace e capite che c’è dell’interesse anche dall’altra parte smettetela di farvi le pippe mentali e di giocare a mandare i soliti sms del caso, siate più diretti e baciatela sotto casa. Vi assicuro che fa sempre molto piacere!!!

Concludo facendoti gli auguri per una felice estate, e per un successo sempre in crescita, che meriti interamente. Ti va di lasciare un saluto ai lettori di LucaniArt?

Ma certo! Magari qualcuno di loro lo incontrerò anche il 6 agosto a Maratea per la presentazione del libro… Per tutti gli altri un bacio e un grazie per esservi interessati anche ai miei libri.
by Maria Luigia Iannotti

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23 luglio 2007

A Cassano delle Murge, versi ad alta voce

[riflessioni -3]
Leggere un poema è ascoltarlo con gli occhi;
ascoltare è vederlo con le orecchie
Octavio Paz
Se "il destino della poesia è la voce", credo che manifestazioni come quella di Cassano delle Murge non possano che essere di stimolo e incoraggiamento ad iniziative in cui la poesia ritorni nelle strade e nelle Piazze, tra la gente insomma, con la semplicità e l’umiltà della creazione.
Nella cittadina pugliese, tra gli antichi palazzi, le case in calce bianca, le chiese, gli archi, le piazzette medievali, per tre sere consecutive “la parola” dei poeti è stata recitata, letta, interpretata, cantata.
Numerosi gli artisti che hanno partecipato anche quest’anno alla V edizione del Festival con le loro letture e le loro performance, in un confronto serrato tra diversi modi di scrivere e intendere la poesia, partendo da quella tradizionale, per arrivare agli sperimentalismi di chi la poesia la fa assieme alla musica.
Per l’edizione di quest’anno, la cittadina delle Murge ha accolto poeti con la chitarra, giovani esordienti e maestri affernati, che hanno declamato i loro versi in una lettura simultanea da tre piazzette diverse del pittoresco centro storico cassanese.

E non solo poeti pugliesi, lucani o italiani, ma anche una voce internazionale. La novità di quest’anno, infatti, è stata la presenza di Adnan Al Sayegh (1955), tra i maggiori intellettuali dissidenti iracheni, poeta tradotto in undici lingue, ma non ancora in italiano. Tra i suoi titoli più noti Gli uccelli non amano i proiettili, Nuvole di colla, Cullando il mio esilio. In iraq, gli uomini del regime di Saddam Hussein gli avevano sequestrato due libri, lo avevano condannato a morte e nell’aprile scorso, durante una lettura pubblica nel suo paese, lo avevano minacciato di tagliargliela quella lingua che costruisce versi di libertà. “Ma io non ho mai messo la mia penna nel cassetto e continuerò a scrivere- ha dichiarato in una recente intervista, uscita in questi giorni su La gazzetta del Mezzogiorno - la scrittura è la mia stessa Vita”.

Everty time a dictator falls
From the throne of history, embellished with our tears
I clap my hands until they glow red
But back home when I
Turn on the television
Another dictator flows
From the mouths of the people, from a screen glowing with cheers
I die with laughter
at my naive self
Tears burn my eyes until they glow red
(Naive - Translated by Ko Koomon – Nederland)

Un’altra suadente e ammaliante voce ha attraversato con i suoi toni e le sue vibranti modulazioni tonali, le piazzette del centro storico cassanese, quella della poetessa perugina Anna Maria Farabbi (1959), dalla scrittura caratterizzata da una forte identità femminile e improntata, così come lei stessa ha raccontato all’umiltà, alla profondità e alla levità. La scrittrice ha presentato a un pubblico attento ed entusiata, versi tratti della raccolta inedita “La magnifica bestia” in corso di pubblicazione e poesie e piccole prose contenute nelle sillogi Fioritura notturna del tuorlo, Il Segno della Femmina, La tela di Penelope, Adlujè (da cui estrapolo i versi che seguono):

Madre della luce scoperchiami gli occhi:
falli concavi
come un palmo.
Voglio che siano sosta per gli uccelli
affinché possano pernottare in me
sotto la mia fronte
raccogliendo l'atterraggio, il frullo, l'alzata in
volo
e la brace quasi spenta del giorno. Voglio
tuffare la faccia nel colore
impazzire le vene fino al bulbo buio
e poi franare giù nel foglio
pregna:
io giallo verde blu in persona
con la bocca rosso
arancio,
il foglio,
come un letto zuccherino per fare l'amore.
(da Preghiera: introduzione al colore – A. M. Farabbi)

Uno spazio importante all’interno della rassegna è stato riservato alla rivista culturale la Vallisa, diretta dal Professore Daniele Giancane e alla poesia dialettale barese.

Non sono mancati poi i momenti in cui la poesia e la musica si sono contaminate, grazie alle performances di artisti come Vincenzo Mastropirro con le sue intersezioni sonore e a Maria Moramarco accompagnata dal gruppo degli Uaragniaun.

Uno spazio importante è stato dedicato anche alla poesia lucana della terra e delle radici con i reading di Maria Pina Ciancio e Maria Luigia Iannotti.
Non sono mancate infine le letture e le recitazioni dei classici: da Dante alla Dickinson, da Shakespeare a Neruda.

La manifestazione poetica Notti di Poesie che si è tenuta dal 13 al 15 luglio è stata organizzata dalla pro Loco La Murgianella in collaborazione con i Presidi del Libro e con le Istituzioni Locali. Lo scopo del Festival, come dichiara l’organizzatore e Presidente della Pro Loco Giovanni Brunelli, è quello di avvicinare il pubblico alla “parola” per scoprire quale arcano e magico potere può avere la poesia sulle nostre vite.
by Maria Pina Ciancio

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16 luglio 2007

Terra nera di Giuse Alemanno

[percosri -15]
Terra Nera non è di Giuse Alemanno. Terra Nera non è neppure di Nino, di Annina né di Bruttacapa, di Zio Peppe. E’ terra nera di un giorno che non conosce tregua, di una canicola gialla e verde, luce perpetua che non si abbuia mai. Luce di fungo atomico, quella che crocifigge a fantasma muscoli e ossa contadine. “L’alba è una luce che lievita. Gonfia, gonfia fino a che non esce il sole. Il nostro sole è un martello che spezza l’osso frontale del cranio. Il nostro sole è fatto d’acciaio”.
Brulica di voci e pani di sangue la luce di terra nera: il sangue di Annina, copioso e d’inchiostro d’ormone, che fiuta il caldo percorso da casa alla fontana dei secchi; quello di don Aldo Fucciano, sventrato in sacrificio come maiale che dia linfa all’ira tracimante di Nino; poi ancora il sangue di Mimino, malarico capro espiatorio di un Sud che non chiede riscatto ma rivolta. Le voci appartengono a chi apparentemente decide o contesta le sorti: ai proprietari terrieri, ai notabili, agli anarchici, alle forze dell’ordine.Invece non hanno parole coloro che muovono la storia, microcosmo tra due zolle, e perciò la modificano, perché Nino e sua madre non dicono. La vergogna contadina del silenzio analfabeta, che del Novecento è stata periodo incidentale tra patti agrari e occupazione delle terre e che negli anni Sessanta diventava motivo ispiratore nel Mugello di una alfabetizzazione linguistica e psicologica, qui si tramuta in rigo rosso marchiato sui corpi, corpi aperti da lame affilate o barattati come pegni per l’amore che soggioga.Non conosciamo Annina bambina, nulla ci vien detto dei suoi giochi tra le mura bianche della casa familiare. E’ davanti a noi subito come centro focale di una terra grassa dalla esplosiva carica sessuale, preadolescente che rovescia il rito inibitorio dei genitori per perpetuare non più onore e pudicizia, ma denudare le pulsioni che alimentano l’artificio della magia, codice di elaborazione culturale e regolatore dei rapporti sociali nel mondo contadino. Vero e proprio magnete sessuale, Annina esercita una fascinazione potente sui maschi che avvicina e, diventata sposa e madre, gestirà con patriarcale cognizione i cupi tremiti degli uomini che sceglierà.E’ una terra nera che dorme apparentemente sotto polvere antica. Chi non l’abbandona la detesta.La preserva dal mutamento, la ricalca nel male. Ma il male ha davvero dimora esclusiva in Nino? Nino…che non ha bisogno delle cinque lire per prendersi un’istruzione, come nelle campagne della Capitanata agli inizi del secolo scorso. Gliela elargisce il Professore, grazie agli accorti movimenti della madre Annina, ma non si scatenerà una redenzione culturale che possa rovesciare i ruoli di classe, la distanza tra l’allievo e il maestro si rivelerà incolmabile. Nino, che è bracciante, stalliere, soprastante. Matteo Salvatore ha musicato i soprastanti in ballate secche e poetiche, Giuse Alemanno fa annusare l’odore dei loro comandi sferzanti sui cafoni, della loro paura e sottomissione ai padroni.Nino, che sa qual è l’origine del suo incubo, il suo perno d’amore totemico, morso fascinatore e distruttivo, quando cerca la madre in una casa vuota di suoni e di calore e di presenze:” E c’era, stesa sul letto pieno solo da una parte, a dormire. Il volto perfettamente rilassato. La bocca leggermente aperta. La sottoveste appena tirata sul polpaccio. Mai tanto mi turbò. Mi riempii un bicchiere di vino fino a versarlo sul tavolo (…). Fissai il muro bianco. Bevvi il vino e piansi tutte le mie lacrime di dolore e di vergogna”. Nino, “nutrito dal dolore”, che nidifica nelle sue vene senza pace, senza lacrime, in autarchia emozionale e trova sfogo nella smania di controllare proprietà, destini, giochi esistenziali. Zio Peppe è figura ammaliante, sporco di imbroglio e di animalesco disprezzo, demiurgo dell’intera vicenda, avvolto da un’aura semisacrale, capovolge e impiega a suo vantaggio ogni possibile forma di ottusa usurpazione. Terra Nera è lingua di creta, con cui Giuse Alemanno plasma le forme opulente di Annina, il dito famelico del ginecologo, lo sputo roboante di Zio Peppe, le mani sole e rapaci di Nino.L’architettura dei brevi e ritmati periodi, armoniosa, soffia su un lessico corale scarno e carsico, s’addentra per gravine e si lascia poroso penetrare da un vento gutturale che suona una nenia stordente. E’ un ordito sonoro uniforme, scandito dagli sputi di Zio Peppe, veri e propri fonemi di un alfabeto di regolamento e rapina del mondo, rintocchi di spietata supremazia e prossemica definizione dei rapporti di forza. Questi cafoni annullano le distanze dal mito, si ribellano al determinismo di ottocentesca memoria e chiudono varchi a distorte idealizzazioni. Un romanzo di formazione, in cui la violenza arsa si lascia piegare infine da una goccia perfetta di amore, vagheggiato da Nino e non ricambiato, alla quale ci aggrappiamo insieme a lui, nella convinzione che il suo apprendistato nasconda una preghiera di libertà e un non domato istinto di governo del male.“ Così stette un gran pezzo pensando a tante cose, guardando il paese nero, e ascoltando il mare che gli brontolava là sotto. E ci stette fin quando cominciarono ad udirsi certi rumori ch’ei conosceva, e delle voci che si chiamavano dietri gli usci, e sbatter d’imposte, e dei passi per le strade buie. (…) Allora tornò a chinare il capo sul petto, a pensare a tutta la sua storia.” (Giovanni Verga –‘ I Malavoglia’).

8Terra nera, di Giuse Alemanno, Edizioni Stampa Alternativa.
by Erminia Daeder

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