05 febbraio 2007

Gina Labriola tra lucanità e cosmopolitismo

[riflessioni -6]
I critici lucani, primo tra tutti Raffaele Nigro, insistono per ovvie ragioni campanilistiche sulla lucanità della poetessa Gina Labriola che nessuno, tanto meno lei stessa, può negare, ma è un giudizio quanto mai restrittivo e che non fa onore alla Lucania stessa. La “lucanità” consisterebbe nel pessimismo nel fatalismo e nell’umor nero, cose tutte che, se affiorano - anche spesso - nella sua produzione sono sempre superate attraverso l’ironia, e comunque combattute. Claudio Marabini parla di “arguzia”. Fattore assolutamente positivo è la trasposizione dei ricordi, dei sentimenti, delle sensazioni primigenie in un afflato universale e in ambiente cosmopolita.
Ma in che cose consiste, e dove si trova, questa “lucanità”? L’autrice come abbiamo detto, certo non la nega, ma non vuole farsene un vessillo. Nella prima produzione, quando era in Iran, la lontananza le dava certamente un rimpianto, ed è caduta nel luogo comune degli anni ‘50-‘60: le donne nere, i veli, ecc. Più era lontana e più sentiva vicina la patria lucana, che non le sembrava solo perduta, ma quasi “proibita”.
Ha confessato, in occasione di una presentazione di un suo libro, che la distanza era enorme, i viaggi costosi e le scarse vacanze erano trascorse al mare o in famiglia. Le strade per i paesi, allora erano difficili, e i suoi bambini non sopportavano il lungo viaggio e soffrivano. Soffriva lei, quindi, di “nostalgia”, “dolore per il ritorno” nella sua terra che le pareva, e forse era, quasi impossibile. Nel primo volume (Istanti) su oltre cento poesie, sono presenti solo sette o otto che fanno riferimento alla Lucania, anche se sono tra le più sentite e commosse. In Quasi una dedica c’è il suo fiume: ma somiglia proprio al Sinni, o è soltanto il “Fiume della vita”? Il fiume che attraversa Isfahàn si chiama Zayende-rud che significa appunto “fiume della vita”. Più tardi ci sarà la Senna, e i critici ossessionati dalla ricerca delle “fonti” troveranno pane per i loro denti ricordando l’Ungaretti dei Fiumi.
Reminiscenze letterarie o personali? Il tutto ovviamente si mescola. Si parla di Giovanni, e San Giovanni è il protettore di Chiaromonte: lo ritroviamo nella poesia Il santo patrono, che è proprio il Battista portato in processione. Di altri Giovanni si parlerà altrove: in Spagna, naturalmente, diventa Don Giovanni, poi ritorna a essere il Battista, e in Fantasma con flauto addirittura la situazione è capovolta;
E se per una volta, Salomè,/fossi io a farti cadere la testa?/Io, Giovanni emaciato, nutrito di locuste nel deserto/ senza più sangue nella gola, /tante volte me l’hanno tagliata, e consunta la pelle delle mani /per tanti lavacri nel Giordano. /Se una volta, io mi portassi, /avvolta nei tuoi sette veli, /induriti dal sangue e dagli aromi /nella confusione degli incensi, /la tua testa riccioluta?
C’è il ricordo del Santo protettore ma ancora una volta compare l’“Altra”, in uno scambio di ruoli. Giovanni è una lirica complessa (forse perfino un poco blasfema) in cui si fonde il mito biblico al ricordo delle feste del suo paese. Chi parla è una donna, inutilmente innamorata del Battista:
Non mi guardavi /quando ti portavo /tra le cocche del fazzoletto /il formaggio di pecora /e il pane azzimo /e la corrente / (del Sinni o del Giordano?)/ti illividiva i piedi.
Ne Il santo patrono c’è una descrizione di una festa e di una processione che certamente ricordano alla poetessa le feste e le processioni del suo paese, ma non si capisce (o forse si capisce anche troppo bene) se questo “Santo patrono” sia davvero il Santo protettore di Chiaromonte o ancora una volta un essere irraggiungibile.
Per devozione / occhi di smeraldo ti hanno fatto, /ma io sola so chi sei / e non posso guardarti negli occhi. / Hai un’aureola / che io ti ho fabbricato / con tutto quanto mi restava / non so se latta o oro, / tutta la ricchezza / nella cassa mezza vuota / ereditata da mia nonna. / Passa, / o patrono onnipotente / con tutto il tuo mistero. / Solo le campane, / poiché sono così vecchie, / possono osare / in quest’ora rossa di tramonto / gridare il loro amore / tra i cirri color sangue / forte, quanto più forte batte in petto / nella festa il battaglio del dolore.
Un accenno a Chiaromonte è nella lirica Felicità coniugale, ma è ancora una volta il tema dell’incomunicabilità coniugale e dei sogni che se ne vanno a spasso per conto loro, in un contesto che potrebbe essere qualunque piccolo centro urbano dove si enfatizzano i problemi interiori e sentimentali.
Su questo tema assai frequente, c’è una poesia inedita, citata precedentemente, che l’autrice definisce “gozzaniana”, proposta in una lettura pubblica “nelle sue contrade” ma che non ha mai pubblicato forse perché troppo (almeno apparentemente) autobiografica, o troppo “provinciale”, che fa riscontro a Felicità coniugale già citata, ma scritta molti anni dopo. Ci sono temi ricorrenti, anche se trasformati nel tempo. C’è il ricordo, evidentemente, di “fatti”, storie d’amore ascoltate nell’infanzia, storie di famiglia, ma che potrebbero essere state vissute in un qualunque luogo periferico e un po’ chiuso.
In Alveare di specchi sono pochi i riferimenti alla terra d’origine, lo struggente rimpianto è quasi solo per l’Iran, la patria perduta per sempre. La Lucania non era troppo lontana dalla Spagna, il “mito” si ravvicinava, non era più tanto porto “proibito”. Fa eccezione L’erba vento, scritta nel ’72 (anno dell’importantissimo premio Roberto Gatti), a Bologna dove si trovava in ospedale. Ci sono altre poesie datate dal Sant’Orsola di quella città. La malattia, anche se in via di guarigione, le dava la probabilmente nostalgia del suo paese: L’erba vento
Fuga di tetti d’embrici / Del mio paese / Onda di sangue pallido / Sospiri di camini /Fumo di bosco ucciso / Che sa di muschio e di fungaia / Desiderio placido / D’amplessi con le nubi / Antiche spose nel talamo del cielo / Muri grigi, o miei vecchi muri, / io non sono il fico familiare / cuore ligneo e seni di miele / che sfiora il davanzale con le grosse mani. / Non sono l’edera /Che vi penetra in petto / Con radici di ricordi / Lunghe dita / Di amanti perdute, /che nasconde lucertole / come desideri di sole./ Io sono l’erba vento / Nel vuoto tra due pietre:/ vivo d’un grumo di terriccio / dimenticato tra un amore e l’altro / in una ferita dell’intonaco / ciuffo verde senza addii, / in una frattura tra due embrici / carezza distratta del vento polveroso. / Ma tu ti sei rifatta la facciata / Cemento e asfalto come un muro di città. / Ti sei vestito a nuovo per le nozze: / non ha ancora ferite / il tuo binco intonaco /perché vi posi l’erba vento / una pausa grigia di stanchezza.
Com’è evidente, al ricordo dei suoi tetti e dei suoi muri si sovrappone la metafora dell’“erba vento”, riflesso ancora una volta del sentimento di abbandono.
In Alveare abbiamo però le tre brevi bellissime liriche più note di Gina Labriola, già citate, riprese nella Fenice, poi su seta, e riprodotte perfino in una ceramica sul muro della villa comunale a Chiaromonte: Dal lume di luna, Silenzio punteggiato di stelle, La strada al mio paese. Si può riconoscere Chiaromonte in queste liriche? O si tratta di un paese irreale nella fantasmagoria della poetessa? Si nota ancora una volta il tema della luna, che ricorre di frequente nella sua produzione poetica. Importante la poesia finale della raccolta: La vecchia che filava i sogni.
Ho incontrato la vecchia / che filava i sogni. / Dove?/ Non so se a Rotonda di Potenza / accanto alla fontana / che faceva il contrappunto / alle favole di mia nonna /sotto il suo balcone / o a Kashàn,
[1]/ sotto l’arco a ogiva / accanto al forno del nun lavàsh [2], / un buco arroventato, / la bocca di un demonio / che sputava schiacciate /sottili come idee, / profumati come pani. / La vecchia. / Filava con cento colori / che estraeva dal centro della terra, / in uno zir-zamìn di Kashàn [3] / tra ragnatele di telai / matasse fumanti / dall’odore asprigno. / Il suo occhio era giallo / come la terra di Kashàn. / Il fuso era un cipresso altissimo. / Filava / / /montagne di sogni a matasse / così alte che raggiungevano le nubi. / Anzi, erano le nubi. / Le ho portato i miei sogni / chiusi in sacchi neri di fuliggine / legati con il filo di un ricordo. /“Fammi un tappeto, le ho detto, / un tappeto di Kashàn, / con una rosa nel mezzo /gli asini di Rotonda, /la festa di Sant’Antonio, /i cammelli, / in fila tra le automobili / lungo le strade di Teheran. / Passato e futuro, tessilo insieme. / Mettici tutti i miei corvi / tutti, quelli di Vertunno / e quelli di Gholàk. [4] / “Va bene, ha detto, / ritorna tra cent’anni”. / E le passava tra le mani /la testa di un ragazzo riccioluto. : Le cadevano le ciocche tra le dita, / e lei le annodava nell’ordito / del tappeto di Kashàn. / Sul volto adolescente / lasciava senza sangue /i segni delle unghie aguzze.
Ecco, dunque, magicamente fuse le due patrie, l’Iran e la Lucania, rappresentata questa volta non dal paese natale, Chiaromonte, ma da quello della sua nonna, Rotonda, che le è ugualmente caro.
Qualche cenno ai luoghi e ai miti del suo paese si trova in In uno specchio la Fenice: Padre mio brigante, Sul ciglio dei calachi e Il farmacista di Castelluccio, ma sono allusioni assai vaghe e senza nessuna vera connotazione geografica o storica. Assente quasi del tutto è nelle raccolte poetiche successive, posteriori a In uno specchio la Fenice (Fantasma con flauto e Poesie sur soi/e), nonché nella commedia tutta sul tono surreale.
Con l’età matura e soprattutto con la nascita del primo nipotino, Manuel, Gina Labriola vuole offrire a lui e ai suoi figli, nonché ad altri ipotetici lettori, piccoli e grandi, il ricordo di una patria perduta nel tempo, non più nello spazio, ed ecco Storie della pignatta: un’infanzia tra miti, invenzioni, ricordi in un paese che conserva la realistica struttura antica, che si chiama Montedoro ma che somiglia molto a Chiaromonte, anche se, come dice nell’epigrafe, è inutile cercare questo paese nelle carte stradali. Grande parte in questa storia ha la prozia maga e il monachicchio, con il quale si identifica.
La pubblicazione del libro coincide con i suoi frequenti ritorni al paese natale. Realismo colorato di magia, realtà, ricordo e immaginazione: inesatto sarebbe comunque parlare di “realismo magico” che ha tutt’altra connotazione storica. La Lucania (Chiaromonte, Rotonda, il Sinni, il Pollino) sono “la sua Macondo”. Il riferimento è a Gabriel Garcia Marquez – personalmente conosciuto da Gina Labriola.
Importante nelle Storie del samovàr il raffronto, già citato, tra una leggenda persiana che riguarda l’Imam Rezà di Masciàd e il Beato Giovanni da Caramola, le cui reliquie si venerano a Chiaromonte: entrambi salvano degli animali innocenti dall’ingordigia di rozzi cacciatori. I bambini protagonisti del romanzo fanno i loro commenti:
- Ma io, questo fatto di cacciatori e di animali liberati dai santi, l’ho già sentito! - assicurava Alex il Fantasioso.
Era vero, la storia l’avevo già raccontata io ai miei figlioletti; l’avevo sentita tante volte, quando ero anch’io una bambina: era la leggenda di un povero eremita che viveva in una grotta, su una montagna vicino al mio paese, il beato Giovanni da Caràmola. I cacciatori lo buttarono giù, in un precipizio, perché aveva liberato due caprioli, a lui affidati, quando aveva sentito la loro mamma che li chiamava.
- Forse Giovanni conosceva l’Imàm Rezà... lo aveva incontrato da qualche parte... - suggeriva il Fantasioso, che volava con l’immaginazione fuori del tempo e dello spazio.
- Ma se stava sopra una montagna e faceva l’eremita! - osservava il Ficcanaso.
- Ma l’Imàm Rezà era santo e poteva andare dappertutto! - aggiungeva Firùz - non era niente per lui, volare fino in Italia, a cercare amici suoi! -
Erano proprio due storie simili, ma Giovanni, l’umile eremita del mio paese, non sapeva niente dell’Imàm Rezà. Non ne aveva mai sentito parlare e non conosceva neppure l’esistenza di una città chiamata Masciàd, lontano lontano, al di là delle montagne dove viveva lui. Rezà non sapeva che un suo collega, santo, sì, ma di un’altra religione, avrebbe potuto compiere le stesse buone azioni, all’altro capo del mondo. L’intenzione, però, era la stessa: salvare bestiole innocenti e dare esempio di mitezza e zoofilia.
Com’è evidente, la “lucanità”, pur nella presa di coscienza cosmopolita, non perde la sua freschezza e la sua autenticità.
Storie del pappagallo, specialmente nella seconda edizione, è tutto strutturato tra Iran e Parigi. La Lucania sembra non esserci.
L’Iran non è più quello fiabesco del tempo di Farah Diba ma è quello triste degli esuli che vivono tra rivolta e rimpianti, e questa volta non c’è posto per la sua regione, anche perché la sua patria un tempo lontana e quasi “proibita” è diventata reale, è il suo vasto nido, crogiulo di tutte le sue esperienze: il suo cat-atelier è un sogno realizzato.
A voler frugare bene, però, il pappagallo malizioso qualcosa trova dei ricordi d’infanzia, rivissuti in occasione di un buffo quanto imbarazzante incontro. La poetessa, la professoressa, ormai affermata è ormai sola nel suo rifugio parigino. Incontra per caso (è inutile volerne sapere di più sulle vicende biografiche!) un “paesano” che ha fatto fortuna, e, ricordando “l’infanzia sugli stessi sassi” le vuole offrire la sola cosa che sa di avere più di lei e che lo rende impavido fino alla sfacciataggine, tanto spudorata da sembrare solo un’ingenua rivalsa: Compagno emigrante:
Compagno emigrante, / volevi tendermi il c…, /come si tende una mano fraterna, /o una rosa. / Altro linguaggio non avevi, / O forse era ancora la solita storia: / «Io ce l’ho, e tu no!» /C’era pure la tua macchina nuova, / rutilante sotto il balcone. / Tu, bambino, al paese, /camminavi dietro un ciuco, /a piedi nudi, / ed io ero in braccio alla serva, / in una vecchia Balilla /con il fiocco in testa / (ero io, col fiocco, ma forse, pure, / la vecchia Balilla). / Era forse un’arma da scasso? / O una rivalsa? / Un’altra specie di lotta di classe, / attraverso un tubo gommoso / innocente, dopo tutto, / come sempre, del resto, /che non sa quasi niente / di vendette o di lotte di classe. / E in comune c’era solo / un grande imbarazzo, / forse una grande paura / e neppure ci rendeva fratelli / in terra straniera / il cognome registrato all’anagrafe / dello stesso paese, / l’infanzia sugli stessi sassi.../ ma tu (allora!) eri / a piedi nudi dietro un ciuco, / io in braccio a una serva / in una vecchia Balilla, / (col fiocco in testa).
Non c’è offesa nella proposta indecente del “paesano”, ma una sorta di fraternità in un paese straniero, e, da parte della poetessa, pur nel respingere ovviamente l’ardita offerta, c’è una ironica e perfino affettuosa comprensione.
L’emigrante è un “compagno” che ha fatto fortuna ma che come lei ha conosciuto gli alti e bassi del destino e certamente anche le difficoltà dello spaesamento.
Nella lirica Le tue orecchie, che dovrebbe essere una dichiarazione d’amore, la poetessa dice di amare
Le mani asciutte, calde, / come i mattoni bollenti / che al mio paese si usavano, / avvolti in un giornale o in una pezza, / per scaldarsi i piedi.
Poi, però, dichiara di preferire di lui le orecchie (le tue grandi orecchie a sventola) che sanno ascoltarla senza scacciare via le mosche pungenti delle sue parole.
Sempre nelle Storie del pappagallo c’è un piccolo accenno, solo un aggettivo (basilisco) alla lucanità, che sfugge a prima vista ma è che un indizio sintomatico, molto importante: Lamento dell’usignolo
Ma perché andate raccontando in giro / che sono triste e canto amori morti / solo perché mi piace il fresco della notte? / E perché mi accoppiate con la rosa / e inventate assurdi duetti / con quella prima donna / che conosco appena? / Voi, mi dipingete sulla rosa, / io, per me, preferisco il fresco delle frasche / Se la mia voce sembra triste, / è perché ho questo maledetto / un poco lamentoso / accento basilisco, / ma anch’io posso esser contento / come una gallina dopo l’uovo. / Anch’io posso fare amore, uova, / figli, note, poesie e svolazzi: / come farebbero altrimenti, / i poeti, e i figli dei figli dei poeti, / a raccontare che sono sempre io / quello degli amori morti / e delle uova covate dalla notte?
Gina Labriola è lucana e ama la sua terra. Prova ne siano oltre alla sua opera poetica e narrativa, i suoi lavori di diffusione e traduzione della poesia lucana in Francia (Vedi bibliografia e le pagine sul suo lavoro critico), ma non ama la lucanità come etichetta restrittiva soprattutto se è vista come un fattore di negatività, immobilità e provincialismo. In questa poesia, sempre scherzosa e apparentemente fantastica (come del resto molte altre) si legge un vero e proprio manifesto di vita e di ottimismo: “anch’io posso essere contento come la gallina dopo l’uovo”.
Due volte si parla di “uovo”, tema ricorrente nella poesia di Gina Labriola, simbolo, anche se inconscio, promessa di vita (o di creazione?).
Si può addirittura sospettare nell’intricata psicologia della nostra autrice, un complesso, un disagio: l’accento dialettale “basilisco” è “maledetto”. La poetessa ama il dialetto (o i dialetti), ma non è escluso che si sia trovata a disagio davanti a una programmatica “solarità” di altre regioni (la Campania?), colpevole di essere solo un “cardo spinoso”, originaria del paese dove Cristo non era arrivato e dove le donne continuavano a vestirsi di nero e a parlare con un accento marcatamente provinciale.
A questo proposito c’è una poesia molto “meridionale”, che fa parte della nuova edizione del Pappagallo
[5]: Orgia , ovvero mercato ortofrutticolo a Sarno
Il sole ubriaco / barcolla tra le nuvole / e senza inibizio grida / per richiamarci. / Ci siamo tutti, già ebbri. / Le solanacee in raso viola / sono congestionate, / hanno bevuto troppo. / peperoni sempre più eccitati./ Il sangue cola acido sulle foglie di lattuga. / “Peperoni, splendidi figli del sole, chi siete? / Bandiere, rosse, verdi e gialle? E di quale nazione?”/ “No! Non siamo bandiere / siamo falli in erezione!”/Ne mio cuore c’è un ciuffo / di pistilli viola / serrati in un artiglio di spine. / “Apriti, mi dice il sole, versandomi vino nella gola. / O mio cardo, se non ti decidi, / non sarai né fiore né frutto / e non avrai neanche un bruco / che ti mangi il cuore!” / Lo so. / Ma che farci? / Aspetto qualcuno che mi mangi, / ma con tutte le spine. /
Già tanti anni fa, in un’altra lirica: Ritorno da Istanti d’amore ibernati, è evidente che vuole cancellare l’immagine “nera”, negativa del suo paese e di se stessa, in una malinconica, rassegnata polemica con il suo improbabile compagno:
Perché non hai voluto / che tornassi al mio paese? / Lemuri in vesti bianche / avevano portato fiori gialli / alla stazione. / Temevi che incontrassi le mie streghe, / per filtrare erbe amare? / No. / L’ultima incantatrice, ormai, / riceve la pensione / della previdenza sociale. / Tutte le streghe hanno lasciato i boschi / abitano l’INA casa. / Tutte le prefiche sono morte. / Non c’erano altre prefiche / Al loro funerale. / Le hanno sepolte in silenzio. / Non c’è più nessuno / Che lamenti il nostro amore morto.
I lemuri, gli spiriti degli antenati, portano “fiori gialli” alla stazione. La poetessa vuole deviare, inconsciamente o no: di quale “suo” paese si tratta? A Chiaromonte non c’è la stazione!
I fiori gialli, i crochi, sono simbolo di luce e di stagioni rinnovate. Le prefiche sono morte e le streghe sono ormai borghesucce pensionate; c’è dunque una volontà ben precisa di cancellare l’immagine funebre del suo paese, anche se con un velo di malinconia, un rimpianto: è sola, lontana dal suo paese dove non può tornare, nessuno più potrà piangere con lei sul suo amore morto.
Una “lucanità” dunque, molto controversa e addirittura qualche volta rifiutata e combattuta nei suoi aspetti più evidentemente negativi e comunque sorpassati, a distanza di decenni, e certamente non in maniera programmatica. Un segreto su quanto l’autrice internazional-lucana potrà ancora offrire, se riuscirà – come lei dice – a “moltiplicare per dieci le ventiquattro ore della sua giornata”.
Promette tuttavia, soprattutto a se stessa, che tornerà in Lucania anche con la scrittura.

[1] Città a sud di Teheran.
[2] Pane sottilissimo.
[3] Zir-zamìn = sotterraneo. Stesso significato del lucano catoio.
[4] Vertunno è il nome della fattoria che la sua mamma possedeva nella campagne di Chiaromonte. Vi fa cenno più volte nelle poesie sul suo paese. Gholàk è il quartiere dove abitava, alla periferia di Teheran.
[5] La seconda edizione del Pappagallo è uscita a fine settembre 2006.
(estratto dalla tesi di Laurea "Un sogno di fili di seta - La produzione letteraria di Gina Labriola" di Rosanna Costantino, Università degli Studi di Basilicata, anno accademico 2005/06)
by Rosanna Costantino

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1 Comments:

Blogger paolosambro said...

Gina, il sapore mediterraneo dei tuoi versi mi riporta ai ricordi quasi perduti della mia infanzia.
Bellissimo...

10:56 PM  

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