[incontri -5]
E’ una "raccolta" delle "raccolte" Apprendimento di cose utili, il volume antologico che ripropone l’intero percorso artistico di Gennaro Grieco, poeta di origini lucane residente a Torino, dove vive e lavora. Sono sei le sillogi poetiche riproposte in versione quasi integrale dall'autore: "Il Viaggio Virtuale", "Rivus Niger e scritture bastarde", "La vocazione e le idee", "Le Trentadue Ottave", "Poesie inedite", "Carte di apprendistato", con prefazione a cura di Sandro Gros-Pietro, nota dell'autore, stralci critici di Squarotti e Spaziani. Un lungo viaggio fatto di passione, rigore, riconoscimenti e apprezzamenti letterari. Di questo nuovo libro ne parliamo con l'autore, per scoprire dalla sua voce com'è nata e come ha sviluppato questa sua ultima fatica letteraria. Partiamo dal titolo. Lei ha una scrittura fondamentalmente ragionata, “petrosa” l’ha definita Enrico Cerquiglini, perché fondamentalmente scabra ed essenziale, talvolta cruda; come mai la scelta di un titolo per così dire “semplice” e con connotati dichiaratamente didascalici?
La genesi del titolo è quasi intuitiva. Semplice il titolo e altrettanto semplice la sua genesi, si potrebbe dire. L’idea di una raccolta complessiva rimanda a quella di “antologia”, e quindi al termine equivalente “crestomazia” (una delle fondamentali caratteristiche del lavoro poetico, si sa, sta proprio nell’andare per sinonimi, nella ricerca del termine non scontato del linguaggio comune nel significato denotativo). Ebbene, confesso che per lungo tempo, prima di darlo in stampa, il vero titolo di questo mio lavoro complessivo è stato Khrēstomátheia. Così è ancora nei files che conservo nel computer. Ma poi, proprio riflettendo sull’etimo di questa parola (dal greco antico khrēstós “utile” e manthánein “imparare”) ho pensato che fosse proprio il caso di esplicitarlo, il significato, in tutta la sua estensione: per l’appunto Apprendimento di cose utili. Anche perché questo titolo racchiude, tutto sommato, l’idea stessa che ho della poesia, ovvero un processo di apprendimento di cose utili alla crescita dell’uomo e della comunità in cui opera. Titolo didascalico? Sì. D’altra parte, uno dei mille difetti che mi riconosco sta in certo tono pedagogico (dal quale, temo, non riuscirò mai ad affrancarmi del tutto).
So che sta lavorando da qualche anno a questo progetto, ma ad opera ultimata che cosa ci può raccontare su questi suoi 30 anni di intensa attività poetica e letteraria?
Sì, è vero, Apprendimento di cose utili è il libro dei miei primi trent’anni di poesia, nel senso che i testi, tutti rigorosamente datati, coprono un arco temporale che va dal 1971 al 2001. E tuttavia occorre precisare che il mio impegno sul campo, per così dire, è ben più recente. Ho il culto del tempo (per certi versi è una schiavitù), ed allora ho una data precisa per il mio ingresso nel mondo della parola scritta, da intendere nel senso di un impegno non episodico o di tipo dopolavoristico. Era la notte fra il 31 dicembre 1989 e il 1° gennaio 1990. E quella notte, dopo un veglione mancato all’ultima ora, scrissi Sogno dell’ultimo dell’anno, la prima poesia nata con l’intento di renderla pubblica. Difficile da spiegare in una intervista come questa, perché occorrerebbero molte parole. Ma, ecco, c’è di mezzo il fascino particolare che per me, spirito profondamente laico, ha sempre rivestito un giorno come il 31 dicembre (anzi la notte, precisamente la fase di passaggio dal vecchio al nuovo, e quindi la nascita, la speranza…). Tra l’altro, non so quale significato possa avere, ma erano le prime festività di fine anno che trascorrevo a casa “mia”, a Rionero, dopo ben diciassette anni di permanenza a Torino. So che quella notte dissi: basta! Non finiva solo un anno ma un decennio, quello della definitiva affermazione della società dell’immagine, dello yuppismo, della Milano da bere, del craxismo, insomma un decennio orribile per chi come me aveva vissuto in prima persona la grande stagione di lotta e di speranza degli anni settanta. Dissi – ingenuamente – basta. Come a dire: è ora di fare qualcosa, di contribuire al tentativo di arginare la piena. E, sta qui l’ingenuità, pensavo di farlo con la parola: non sapevo il deserto nel quale mi sarei avventurato…
Ad ogni modo, che siano quindici, venti o trent’anni non cambia molto. È però vero che ho vissuto questi anni con grande intensità (tanto che mi pare un secolo). Magari, ogni tanto, con qualche salutare pausa di riflessione, ma tutto sommato con una tale partecipazione, un tale coinvolgimento che si può dire sia stata la poesia a scandire gran parte del mio calendario. Ho girato in lungo e in largo per la penisola, soprattutto per via dei premi letterari (un fenomeno, questo, che sarebbe tutto da studiare). E ne ho viste di cose. Ed ho conosciuto persone straordinarie, dal magistrato di alto rango alla casalinga, dal barone universitario all’operaio, dalla sartina all’affermato professionista, ma tutti accomunati da questa incredibile passione per la poesia. Ho già detto più volte su questo aspetto, e cioè sul fatto, degno di assoluta considerazione, delle tante, ma proprio tante persone che, magari nella provincia più remota, tentano di farsi argine alla dilagante piena di nichilismo, all’avventurismo più fatuo, in una parola alla piaga dell’autolesionismo che sembra caratterizzare l’uomo del nostro tempo. E lo fanno inopinatamente con la poesia, ovvero con la parola, una parola non disgiunta, tuttavia, il più delle volte, dal dato comportamentale, dal farsi cioè esempio quotidiano di serietà e lungimiranza: insomma un vero e proprio atto d’amore.
Ecco, oggi posso solo aggiungere che magari queste persone non faranno la storia della letteratura (una storia, peraltro, determinata da ben altri e spesso discutibili fattori, e che forse anche per questo è una storia che esula dalle loro primarie preoccupazioni), ma certamente costituiscono, a mio modo di vedere, l’asse portante del movimento poetico dei nostri giorni. Asse portante, lo ribadisco, soprattutto in una fase caratterizzata dall’incredibile paradosso di essere rappresentati al vertice da una sostanziale mediocrità. Questo, almeno nel nostro Paese, è il fatto nuovo, il fatto davvero inedito di questi ultimi lustri: a fronte di una moltitudine (che non è necessariamente un dato negativo, anzi) di nuovi votati alla nobile arte della scrittura, a fronte di una marea che ha la sua origine innanzitutto nella scolarizzazione di massa (e, in stretta connessione, in una sempre più diffusa consapevolezza dei propri diritti di cittadinanza) e che ha la sua definitiva affermazione con l’avvento di Internet, ovvero delle democratiche potenzialità del web, si assiste ad uno spaventoso restringimento dei canali di accesso ai luoghi da sempre deputati a “storicizzare” l’evento letterario. Crisi delle “istituzioni”, anche qui, vista vuoi nel senso di una sostanziale scomparsa della figura classica dell’editore che rigorosamente sceglie e dà autorevolezza, vuoi nella latitanza di una critica sempre più notarile e peraltro permeabilissima, vuoi nella pochezza di un’informazione che tale più non è, e da tempo, ma che piuttosto si caratterizza, senza dignità alcuna, come propaggine dei disegni immancabilmente politico-finanziari, ovvero di potere, di questo e quello. Decadimento dei costumi, anche qui – ed è proprio questo il deserto cui più sopra accennavo –, dove, per dire, è ormai consolidata consuetudine la pratica nella quale noi italiani davvero eccelliamo, ovvero la più becera cooptazione amicale, se non addirittura parentale. Nessuna illusione circa l’esistenza di oasi felici, per carità! Ma, insomma, anche con la poesia? Addirittura con la poesia? E per quali misteriosi interessi? Quella, la poesia, per sua natura è come una sorta di precarissima montagnola (di pasta tenera, friabile assai). Eppure, c’è chi ha visto bene di attestarsi (e atteggiarsi) sulla sommità di un simile avamposto, con l’unico sforzo di menare vigorosi calci sui denti e di ricacciare quanti a vario titolo tentino l’ascesa. Mah, vai a capire! Mi sembra, oltretutto, uno sforzo vano. Perché, non c’è dubbio, nemmeno loro passeranno alla storia.
Solitamente un lavoro antologico (o "diario poetico" come lei preferisce chiamarlo) chiude un cerchio che evidentemente non è solo di linguaggio e di esperienze letterarie. "Apprendimento di cose utili" rappresenta un po’ un punto di svolta anche di vita?
Direi di sì, alla fin fine. Più sopra parlavo di “pause di riflessione”. Ecco, quella più consistente (e dolorosa – potrebbe essere interessante, in certo qual modo istruttivo riportarne le ragioni, ma temo che non sia questa la sede adatta) l’ho avuta a cavallo dello scorso decennio, complice anche il mio trasferimento in provincia, ai piedi delle Alpi, sempre più lontano dai rumori della grande città. Al rientro (perché non si può sfuggire alla propria natura…), sul finire del 2001, mi posi come obiettivo primario proprio la pubblicazione di una raccolta di tutti i miei lavori. Mica tanto inconscia, evidentemente, l’idea di lasciarmi alle spalle, “specialmente nello spirito – scrivo in una nota di Apprendimento… – , la lunga e oltremodo altalenante giovane stagione della mia esperienza poetica”. D’altra parte, anche il fatto anagrafico ha il suo peso: superato il traguardo dei cinquanta, sono – nemmeno a dirlo – un altro uomo. A parte gli affetti familiari, ovviamente, la scrittura è tutto quello che mi resta. E magari, chissà, il bello deve ancora venire…
L’antologia raccoglie tutte le sue opere in lingua italiana, ma esclude i suoi versi in dialetto lucano. Come mai questa scelta?
Come già precisato, Apprendimento… abbraccia un arco temporale che va dal 1971 al 2001. L’esperienza dialettale, del tutto inaspettata, ha inizio solo nel 2003. Ma, a titolo di cronaca, è soprattutto su questo versante che oggi cerco di lavorare, con rinnovata passione. Avevo un fiume dentro e non lo sapevo: ora vorrei incanalarlo verso il giusto mare.
Nell’arco di trent’anni, dal 1971 al 2001, la sua poesia ha visto nascere ed evolvere diversi orientamenti e tendenze poetico-letterarie. Lei come collocherebbe la sua opera in questo scenario culturale?
Ricordo ancora quello che diversi anni fa, almeno una dozzina, ebbe a dirmi (non senza favorevole stupore) Ada De Judicibus Lisena, fine poetessa e squisita signora che opera a Molfetta, in Puglia: “Gennaro, ma tu fai una poesia europea!”. Ecco, credo che volesse significare il mio operare fuori da un certo lirismo tipicamente italiano, montaliano anzi che no. Non so… Io, tra l’altro, ho dato alle stampe questo mio lavoro complessivo, questa “prima metà del diario”, come l’ho definita, anche per tirare un po’ le somme, anche sperando che quel che resta della critica “ufficiale” potesse, sulla base di un lavoro organico, bello ordinato, offrire un qualche, attendibile ragguaglio, uno straccio di rendiconto, insomma. Ma come si fa? Immagino che sia difficile scomodarsi. Per quanto più sopra sottolineato, non avrei molto da sperare… Però aspettiamo, vediamo…
Per parte mia, posso dire che non è che sia del tutto casuale l’aver debuttato relativamente tardi (più vicino ai quaranta che ai trenta). Di certo, c’entra anche il fatto di volermi infine proporre, come dire?, già con un timbro personale, in qualche modo riconoscibile, senza scimmiottamenti di sorta (ché, di quelli, davvero non si avverte mancanza alle nostre latitudini). E posso aggiungere che ben presto ho pensato di privilegiare l’aspetto formale rispetto al contenuto, nella convinzione che proprio in questo, e cioè nello stile, stia il discrimine e, arrivo a dire, la giustificazione stessa dell’ennesima proposta. C’è una nota di Luciano Nanni, una delle prime su Apprendimento…, che giunge a proposito: “L’ampio arco di tempo permette una valutazione più completa se non definitiva. L’escursione formale dei testi è retta dallo stile, disposto sempre in funzione dei contenuti; così anche un calligramma (p. 205) è vincolato all’evento e a una sua ‘interpretazione’. Là dove la sintesi – comunque presente – acquisisce la struttura versale come significante metrico-visivo, si hanno gli esiti più alti; si veda Il palco con il folgorante incipit ‘L’occhio meccanico cerca il rito e il gesto forte. / Tu sei, tu consisti’. La voce di Grieco risulta qui inconfondibile”. Ecco, a parte la questione della “sintesi” – c’entrano qui magari i gusti personali, e per quanto mi riguarda prediligo comunque un testo ben strutturato, con uno sviluppo, una “storia” – mi fa decisamente piacere, a prescindere dall’eventuale giudizio di merito, che si sia comunque rilevata questa mia particolare attenzione al dato formale. Che poi sia la forma funzionale al contenuto, o piuttosto, rovesciando i termini, il contenuto “piegato” all’opzione stilistica, come io credo di poter dire, è questione che rischia di essere quasi oziosa. Sta, comunque, almeno finora, in questo tentativo di ingabbiare in un dettato a volte persino classicheggiante il dato contingente, l’aspetto spesso scabroso del nostro storico divenire (e quindi quanto di più difficile, se non altro per l’altissimo rischio di scadere nella retorica), il tratto distintivo della mia poesia. Dico almeno finora, e cioè per quanto sin qui pubblicato, perché in ogni caso mi reputo un autore “plurale”, mi piace sperimentare percorsi diversi, ho persino, quasi del tutto inedita, quella che reputo una sorta di scrittura parallela.
Dove collocarmi? Non credo che spetti a me stabilirlo. Auspicherei solamente uno sforzo volto al superamento delle tradizionali categorie di analisi, che la si smettesse una buona volta, in altri termini, col vezzo delle facili etichette – poesia civile, filosofica, sapenziale, politica, esistenziale e quant’altro – graduando il tasso di “impegno” di una scrittura. La poesia è sempre civile, è sempre un fatto d’impegno. Se non altro per il tempo che sottrae ad altre, meno edificanti occupazioni.
Ci piacerebbe conoscere poeti l’hanno formata e quali ancora legge?
Domanda classica, questa. E non priva di insidie per uno come me abituato a essere molto franco. Rischierei, infatti, di essere tacciato di superbia se affermassi che non ho riferimenti di sorta. E se aggiungessi che non credo poi molto a questa storia dei “padri” o dei “maestri” in letteratura. Ma d’altra parte è proprio così.
Oddio, ora che mi sovviene, il termine “maestro” l’ho usato anch’io una volta. Fu, precisamente, quasi quindici anni fa, in una corrispondenza privata con Dante Maffìa. Ricordo che rimasi molto colpito dal suo libro La castità del male (premio Montale nel 1993 a Torino, in occasione del quale per l’appunto ci conoscemmo), uno di quei libri che lo leggi e pensi: “Avrei voluto scriverlo io”. Mi resi subito conto dello spessore, poeticamente parlando, del personaggio, e proprio per questo non riuscivo a capacitarmi del fatto che un simile autore giungesse, non solo a me, quasi sconosciuto. Certo, non mi ci è voluto molto a capire come vanno le cose, a capire che la notorietà – che per la poesia è comunque sempre un fatto piuttosto relativo e circoscritto – non è necessariamente in rapporto direttamente proporzionale alla qualità della proposta, ché, anzi, forse mai come in questa fase storica, caratterizzata da una inaudita degenerazione dei costumi in ogni aspetto della vita sociale, è più che altro prerogativa di uno sparuto gruppo di introdotti a corte, ovvero di presunti consulenti editoriali che si distinguono per la pervicacia nel pubblicare esclusivamente se stessi e qualche raro accolito (vecchio vizio nostrano questo, per la verità, solo che un conto è un Sereni o un Calvino, altro conto è…). Ma, insomma, Maffìa è – ed era già allora, quindici anni fa – un grande poeta, lo è in lingua e forse ancora più in dialetto (una parlata che posso apprezzare senza soverchie mediazioni perché lui è calabrese di Roseto Capo Spulico, quasi ai confini con la mia, anzi la nostra Basilicata). O sta proprio in questa grandezza di poeta il fattore di disturbo per gli asserragliati sulla cima della precarissima montagnola? Non so come dire, ma credo che un po’ si sia capito come la penso: io tendo a parteggiare, a schierarmi. E mi schiero non necessariamente e semplicisticamente dalla parte del cosiddetto più debole, ma di chi merita (ovviamente secondo una valutazione che è certamente soggettiva, ma comunque improntata al massimo rigore). Ecco, chiamare “maestro” Maffìa, quella volta, più che una dichiarazione di figliolanza letteraria, più che una sorta di adesione progettuale, mi è sembrato un personale omaggio al merito di un autore significativo, una testimonianza quasi come atto di rivalsa. Ma, come detto, non credo nei maestri o nei padri. Anche perché, storia della letteratura alla mano, ce ne sarebbero magari così pochi che la questione non avrebbe ragione di essere. Ciò, beninteso, se con tali termini si vuole intendere chi si è distinto per luce assoluta e totale assenza di ombre. E sappiamo che, in realtà, anche la storia dei grandi è costellata di alti e bassi. Come non credo, d’altra parte, a certi rapporti di dipendenza, di quasi deterministica parentela, o ad amenità del tipo “linea lombarda” piuttosto che siciliana o cinese. Penso, piuttosto, che al di qua di una certa soglia di dignità, ovverosia nel novero di autori in qualche modo significativi, ognuno vada per la sua strada. Ognuno conduce – e il bello è proprio questo – la sua sfida: con la sua storia personale e il suo bagaglio culturale che, giova sottolinearlo, sono fattori irripetibili.
Io amo la parola e ad essa mi affido. Insomma, per essere ancora più chiaro, mi affido al testo piuttosto che al curriculum di un autore (che si può sempre costruire ad arte). Sì, va bene, con la poesia siamo nel regno del soggettivo per eccellenza, ma alla fin fine, la parola, se c’è si rivela. Altrimenti, per l’appunto, non c’è curriculum che tenga. Anche perché, come sappiamo, la storia è spesso mistificazione, è solo e semplicemente la risultante di rapporti di potere, e dunque quello che viene tramandato non è necessariamente “il meglio”. Pensiamo per esempio a chi, magari fra un secolo, si troverà a studiare la poesia di questi nostri anni: avrà fra le mani, con ogni probabilità, i materiali di certi mondadoriani senza sangue il cui tasso poetico è pari – se non inferiore – a quello di un libretto di istruzioni di un elettrodomestico.
Io amo la parola e ad essa mi affido con la più ampia apertura, senza preclusioni di sorta. E, per quanto appena detto, con un occhio orientato più al presente che al passato. È questo il mio tempo, è questo il linguaggio di cui mi nutro, è questo il mondo (di gran lunga più complesso) che vivo. Per cui, per certi versi, può intrigarmi più uno dei mille poeti di provincia dei miei giorni che un “classico” consolidato. Quest’ultimo bisogna pure che lo si legga, certo: si deve. Ma è proprio di interesse che io parlo, di piacere della lettura. Anzi, di interesse nella duplice accezione di utile e, per l’appunto, possibilmente dilettevole. Questo è un aspetto di primaria importanza ai fini del processo formativo di una persona. La nostra formazione, infatti, è solo in minima parte un percorso consapevole, ovvero quello istituzionale teso all’acquisizione di una griglia di base, dei rudimenti del “mestiere”. Per il resto si lega a una nozione di piacere, nell’accezione più ampia, che è prerequisito fondamentale, è la condizione indispensabile perché il mero dato venga assimilato: perché divenga, cioè, effettiva conoscenza e ci connoti.
Non è quindi propriamente facile discernere fra gli autori e/o le opere che più di altri possono aver contribuito alla propria formazione. Soprattutto per chi come me ha letto e legge di tutto. È sempre stato il mio pallino (o il mio limite, in un mondo sempre più teso alla specializzazione, alla parcellizzazione): abbracciare l’universo intero, sapere magari poco ma di tutto. E tra l’altro va considerato che la mia formazione istituzionale, scolastica, è sì di tipo umanistico (sociologica, per la precisione), ma non certamente letteraria (quella, d’obbligo, verrà dopo). Infine, si sarà forse capito, propendo, in virtù di una sorta di diffidenza di tipo metodologico, magari più verso i cosiddetti outsider. Fatto sta che da giovane preferivo leggere, per es., un Raffaele Carrieri o un Rocco Scotellaro piuttosto che i soliti Montale e Ungaretti. E alle ragazze regalavo le poesie d’amore di Jacques Prévert (caso a parte mia moglie, alla quale regalai per l’appunto Scotellaro suscitando una perplessità fugata solo successivamente, quando capì il “privilegio” mettendolo in relazione all’incredibile orgoglio che ho delle mie origini). Lungo, davvero lungo sarebbe l’elenco dei poeti che in qualche modo apprezzo: in parte Pasolini, un certo Quasimodo suadente, Luzi, che forse in assoluto è quello che più mi convince nel complesso dell’opera, i poeti russi e Majakovskij in particolare, quelli sudamericani come ad es. Paz, Neruda, Borges, e poi anche Louis Aragon, la Wislawa Szymborska… tanti. E poi una curiosità (che, non so, magari può anche avere una qualche valenza da un punto di vista psicoanalitico): insieme all’incipit di un mio testo del ’94, Il reportage (Ciò che mi par di capire è di tenerezze infinite. / E di scoramenti. E di distacchi mai compiuti.), col quale spesso la notte mi addormento, la poesia che forse più di ogni altra mi è tornata a mente, dall’infanzia ad oggi, è Pianto antico di Carducci. Faccio questa annotazione un po’ peregrina per sottolineare che non è che si trascurino certi nostri “classici”, anche se ai tempi della scuola dell’obbligo più che altro ce li hanno fatti ingoiare (e quindi una qualche rimozione è del tutto naturale che possa esserci stata).
Venendo all’oggi, ai nostri contemporanei, premetto che ormai nove volte su dieci mi pento, a posteriori, di aver speso i miei soldi per la lettura di ciò che offre la cosiddetta grande editoria (che poi in sostanza non è altro che la galassia mondadoriana). Una lettura che pur bisogna fare, per “dovere professionale”, ma che di questo passo finirò – e mi pare di poter dire che non sono il solo – con l’abbandonare. Questi non si rendono conto del grave danno che ormai da tempo stanno procurando all’immagine della poesia. Anzi a volte mi chiedo se certe scelte editoriali siano solo frutto della loro insipienza o addirittura rispondano ad un preciso disegno di definitivo affossamento del genere letterario più nobile. Vogliono farsi belli tenendo in catalogo un prodotto che – dicono loro – economicamente non rende, ma poi nulla fanno per presentarlo al meglio, per selezionare ciò che il movimento poetico effettivamente esprime. E poi, diciamocelo francamente, non è che se uno ha scritto, poniamo nel 1976, un buon libro, debba giocoforza restare in catalogo per tutta la vita pur non esprimendosi con gli stessi standard. Qui non si tratta di (o voler far credere di) fare i filantropi, ma semplicemente di operare delle scelte di rigore (o quantomeno attendibili), verso le quali il pubblico della poesia certamente saprebbe rispondere con favore (come del resto ha dimostrato una decina di anni fa proprio con la collana “I Miti” della Mondadori). E si tratta di prendere atto, una buona volta, del fatto che soltanto con una miope visione di comodo si può pensare oggi di ridurre tutta la poesia italiana ad una sola dozzina di nomi. Del resto, basta andare su Internet per farsi un’idea, basta navigare a caso per scoprire, pur fra tanta, inevitabile spazzatura, un incredibile tesoro di creatività, un fiorire continuo di proposte di nuovi, spesso giovani autori che, per dirla tutta, darebbero dei punti anche a certi presunti poeti laureati, se li metterebbero anzi bellamente nel taschino. Se non le decine di migliaia di (comunque lodevoli) cultori del verso, ci sono in questo paese centinaia di degnissimi autori che avrebbero tutto il diritto di essere presi in reale considerazione.
Ma tornando comunque a bomba, detto già di Maffìa (del quale ho da ultimo letto l’ottimo dialettale Papaciòmme, pubblicato da Marsilio), altri autori importanti, nell’odierno panorama, che leggo con interesse, sono senz’altro Remo Rapino (splendidi gli ultimi volumi di poesia Cominciamo dai salici, Crocetti, e La profezia di Kavafis, Mobydick, ma l’opera più recente è il sorprendente romanzo Un cortile di parole, uscito nei mesi scorsi), Paolo Sangiovanni (che ha all’attivo una ventina di plaquettes, una più bella dell’altra e tutte rigorosamente pubblicazioni-premio), Fabrizio Bianchi, Benito Galilea, Ivan Fedeli, Daniela Monreale, Fabio Franzin (dialettale di vaglia con il recentissimo Mu.scio e roe, Le Voci della Luna Poesia), Enrico Cerquiglini (felice scoperta degli ultimi tempi con i suoi Vendette azteche e Tra nebbia e fango, entrambi da Campanotto), Daniela Raimondi, Stefano Guglielmin (del quale non conosco i primi libri ma molto convincente mi pare quest’ultimo La distanza immedicata, Le Voci della Luna Poesia), la nostra conterranea Assunta Finiguerra (altra dialettale di vaglia, godibilissima), e cito infine due fra i tanti giovani molto promettenti: Elio Talon e Valentino Ronchi. Ma, davvero, potrei continuare a lungo, dicendo ad es. di altri autori (Vetromile, Luiso, Vicaretti, Caso…), onestissimi artigiani della parola, con i quali, anche, oltre a molti dei già citati, mi ritrovo spesso in giro per l’Italia in quello straordinario happening costituito dalle manifestazioni a premi (che, se non altro, sono occasioni d’incontro, hanno il grande merito di portare la poesia fra la gente, e, sia chiaro una volta per tutte, certamente contribuiscono a stabilire una – questa sì attendibile – gerarchia di valore). Per l’appunto: come già detto, in Italia oggi ci sono almeno due-trecento autori che potrebbero tranquillamente essere ospitati nelle più note collane. E a guadagnarci sarebbe innanzitutto il buon nome della poesia.
Lei è originario di Rionero in Vulture, in provincia di Potenza, ma vive da ormai oltre trent’anni a Torino. Le sue radici lucane quanto hanno influito e come si sostanziano nella sua poesia?
In effetti mi vedo come “l’uomo delle due terre” (parimenti amate). O come un albero che si distende per ben 960 Km: le radici ben salde nella fertilissima, vulcanica terra vulturina; il tronco lungo tutta la penisola, ad abbracciarla; la chioma al vento delle (pre)Alpi. Il punto è: in un albero sono più importanti le radici o vale piuttosto la chioma? Mi pare che non possano esservi dubbi. E d’altra parte, a dimostrarlo è questa vena dialettale che mi è venuta in dono negli ultimi anni: mi è venuta, cioè, nella lingua di chi mi ha generato (mentre in piemontese, per dire, dopo quasi trentacinque anni, non saprei mettere insieme una frase di tre parole). A Torino, per puro caso, senza averlo assolutamente pianificato, ci sono arrivato a vent’anni. Ero dunque già un giovane uomo, con un sistema di valori già ben delineato (anche perché accelerato da vicende familiari – leggi la morte di mio padre, io primogenito appena quindicenne – che non potevano non avere il loro peso). E io vengo da una civiltà contadina, vengo dal popolo dei vinti. Credo che più di qualsiasi risposta possa valere la lettura del mio breve poemetto Rivus Niger (ovviamente riproposto in Apprendimento…). E poi, onestamente, Scotellaro, di cui prima parlavo, non è che sia stato propriamente un grandissimo poeta (povero Rocco, doveva ancora affinarsi, non ha fatto in tempo). Ma mi è forse più caro di chiunque altro perché io da lì vengo, dal suo stesso mondo (un mondo nel quale io nasco giusto quando lui prematuramente muore, nel 1953…). Avrei finito per fare anch’io il sindaco del mio paese, forse, se non me ne fossi andato. E non è una battuta (e nemmeno un rimpianto, per carità!), perché ero sulla stessa strada, perché anch’io ho fatto, giovanissimo, le stesse battaglie politiche. Dallo stesso fronte.
In conclusione, nel farle gli auguri per questo prezioso lavoro, le chiedo di raccontarci qualcosa sui suoi progetti futuri.
Intanto, grazie per gli auguri. Quanto ai progetti, ne ho tre o quattro. Ho una raccolta in lingua pronta già da qualche anno per la pubblicazione (ma temo che la terrò inedita ancora per un bel po’). Stesso discorso per una seconda raccolta in lingua (ancora da completare, per la verità). Questa però è “particolare”: è composta da quelli che io chiamo “recitativi”, testi tutti della stessa dimensione (40 versi, perlopiù lunghi) in quella scrittura parallela di cui prima davo cenno. Vorrei però dare priorità, per farne un libro magari già all’inizio del prossimo anno, sia a un progetto narrativo nato una dozzina di anni fa e mai portato a termine, sia a quella che dovrebbe essere la mia vera prima raccolta dialettale (Lu cunt’ r’ lu frat’ è stato poco più di un gioco). Ci sarebbe pure qualche altra ideuzza, ma ho imparato con gli anni che con la scrittura non si può pianificare più di tanto. Più che la linearità di un fiume, la scrittura ha il flusso incostante di un torrente (già: proprio come me, adesso che ci penso).
by Maria Pina Ciancio
Etichette: gennaro grieco, intervista, poesia