20 gennaio 2007

Poesia Meridiana

[riflessioni -5]
… Se l’uomo ha da morire prima d’avere il suo bene
Bisogna che i poeti siano i primi a morire.
Paul Eluard, tradotto da F. Fortini

Pomarico – Matera – Basilicata – Terra – (Forse) Universo – Da queste parti parlare di poesia significa urlare. Gridare contro. Fare poesia significa stare dalla parte della terra e rompere gli stendardi che il dio dell’impero ci mette nelle mani. Dovremmo innalzarli come vuole o frantumarli con le nostre visioni? Le nostre dannazioni?
Non abbiano nessun posto, che sia più bello degli altri, da custodire. Come vengono alcuni a dirci ogni tanto. Noi piccoli germi del sud. Testimoni di un meridione che canta e balla, senza che abbia bisogno di essere ancora immortalato. Stiamo tappezzando di colori le nostre giornate e non abbiamo nessuna intenzione di rinunciare alla bellezza delle parole. Che è bellezza dei luoghi. E dei non luoghi. Probabilmente. Qui la quotidianità insegna a scrivere e consente di leggere.
Dai nostri corpi sgorgano parole veloci e precise. Quanto le frecce del meridione che strimpella le corde dell’Italia. Dalle bocche di noi, poeti di questo tratto di sogno, scappano parole di mille dialetti. Escono dalle nostre anime termini in lingua italiana o vocaboli donatici da altri popoli. Gli altri paesi ci hanno dato culture. Oggi, di nuovo, giungono culture. Grandi quantità di sostanzioso nutrimento. L’accoglienza ci tinge e non ci permette di non amarla. Dalle nostre parti si dorme e ci si sveglia in tanti modi. E la poesia nasce alla stessa maniera.
Adesso, noi, che non siamo altro che gocce di un pezzo di sud grande quanto il mondo intero, catturiamo i ritmi delle piante e ci assuefacciamo agli odori del mare. Della montagna, delle colline che ci sollevano gli occhi. Adoriamo gli immensi spazi e le loro caratteristiche.
Il passato lo teniamo in questi occhi. Nei nostri occhi. Quello che le anziane donne scure in volto si raccontavano, e in certi dimensioni ancora si raccontano, non sono che spicchi di antica poesia. I pastori ed i contadini lavoravano cantando ed inventando creazioni liriche, in ogni istante. Intrise della loro quotidianità e del loro duro sacrificio. Scalfire il terreno era benedirlo e salutarlo. Possederlo dentro e senza diritto di proprietà, stampato sul braccio.
Ogni uomo è un poeta. Scriveva qualcuno. Ogni poeta è pure un uomo. Lo si è dovuto capire in seguito. E l’hanno dovuto capire i poeti. Almeno quelli agganciati ai movimenti della propria regione natia. Quelli scossi dalle scosse elettrificanti dei coloni, arrivati sempre a bordo di sogni gonfiati ed effimeri. Scomparsi come sono scomparse le loro tentazioni di morte e dolore.
Il dolore è la religione sono due elementi fondamentali della poesia meridiana. Evidentemente, di quella meridiana di tutti i tempi. Se possiamo provare ad indovinare.
Queste due conseguenze del passo zoppicante della società sono caratteri forti dei secoli. Nonostante oggi, della seconda vi sia rimasta solamente (e nei migliori casi) la pratica fine settimanale. Con la cancellazione del valore assoluto di essa. Della sua morale che era contro potere, perfino. Almeno a volte. Della sua importanza reale. Spesso religione e dolore hanno fatto cammini comuni. In certe occasioni, lo stesso.
Il dolore delle donne, il dolore dei poveri, il dolore dei malati. Sono da sempre motivo esistenziale dei meridionali ed hanno avuto, in diverse momenti, funzione addirittura di musa ispiratrice. Quei rumori intensi accompagnavano i meridionali ed i meridionali non potevano separarsi da essi.
La religione, essenzialmente, come pratica antica per la ricerca di una vita migliore. L’aldilà. Una speranza utile alla sopravvivenza, un ultimo ormeggio al quale chiedere aiuto prima di cedere. Aggrappandosi ad essa era praticare una via per la salvezza. Per lo spirito, in particolar modo. Poco per le membra.
E’ sin troppo facile carezzare: Orazio, Morra, Scotellaro, Trufelli. Per apportare argomentazioni sostenenti le tesi proposte. Invece, sarebbe meglio continuare a strappare immagini forti. Da questo emisfero basso basso. Che si chiama Mezzogiorno.
Soupault, anni addietro, dava consigli ai poeti: Sii come l’acqua/quella della sorgente e delle nuvole/puoi essere iridato od incolore/ma che nulla ti fermi/neanche il tempo/Non ci sono strade troppo lunghe/né mari troppo lontani/non temere né il vento /né ancora meno il caldo o il freddo/Impara a cantare/senza stancarti mai/mormora e insinuati/o strappa e travolgi/Balza o zampilla//Sii l’acqua che dorme/che corre che gioca/che purifica/l’acqua dolce e pura/perché essa è la purificazione/perché essa è la vita per i vivi/e la morte per i naufraghi. La sua lirica sa di testimonianza. Eppure, queste righe le sento patrimonio di qualcun altro. Dote di tutti i poeti meridiani. Perché in questo scorcio di sensazioni, il sud di questa piccola nazione, c’è tutto ciò che vale.
L’acqua scivola sul popolo del sud. Per lo meno in Basilicata, il bene più santo è presente in abbondanza. I lucani si accorgono di cosa vuol dire. L’acqua è, per eccellenza, l’Essenza. La prova dell’esistenza del cielo. La prova che esiste una purificazione ed un piccolo spazio incontaminato. Che sia solamente una particella o una gigantesca distesa. Ma vive.
Siamo nati per nascere e nascere ancora. Per ricordare che è necessario un uomo sociale. Un individuo che non solo mangia e beve. Un soggetto che pensa al Sogno di una cosa. Che è scordare la povertà e inondare il presente. Con battiti di anima e dolci note. La poesia è una esigenza di questo territorio. Scrivere poesia è un impegno civile. Come si diceva, bene, in passato.
La poesia meridiana ha bisogno di coltivare felicità. I poeti meridiani hanno bisogno di coltivare felicità. Si deve proporre felicità. Sorrisi come antidoti per i mali. Per tutti i mali. Non vi sono misure intermedie. La solitudine è l’unica alternativa ha questa idea. Non staremo qui ha parlarne.
In alto ormai non abbiamo che una luna puttana. Quella donna procace che circuisce le stelle. Una signora dai seni candidi, lisci; intenta a drogarci e sgualcirci. Questo dobbiamo saperlo. Prima di cominciare. Dobbiamo fare i conti con il Tutto che passa davanti e dentro di noi. Non so se siamo impreparati. Comunque, prepararsi è un’enorme gioia. Un frutto sensuale che si deve ingoiare. Per poi sospirare e rilassarci. Fino a quando i giorni saranno immensi e i desideri saranno diventati poesia e futuro. Attimi più che lunghissimi. Brillanti.
Queste riflessioni non sono dettate dalla presunzione di aver riassunto un intero concetto, in qualche riga. Sono semplicemente un primo (coraggioso forse) tentativo di porre un punto di partenza. Certamente vi saranno molte persone che avranno modo di ampliare il concetto. O confutarne interamente le argomentazioni. E’ fondamentale che lo si faccia. Bisogna aprire il più possibile il dibattito. Nella consapevolezza che dissertare a proposito della Poesia Meridiana significa parlare di qualcosa di anticamente giovane. L’immaginazione necessita la presenza assidua della realtà e della voglia di girarsi continuamente avanti ed indietro. La presente è una sfida a quanti hanno la volontà di procedere nell’intento. Sospirando sempre e spargendo sale sulle nuvole e sulle pietre dei nostri incanti.
by Nunzio Festa

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07 gennaio 2007

Tra parole, gestualità, immagini e suoni la performance di Nicola Frangione a Rionero in Vulture

[riflessioni -4]

Si è tenuta a Rionero in Vulture la performance di uno dei più noti e affermati artisti italiani e internazionali. L’evento brillantemente coordinato dalla critica d’arte Elena Schifino è stato organizzato in sinergia dalle Associazioni Skenè, La Cetra e la Lira, LucaniArt, il Teatro “La Piccola”, la Città di Rionero in Vulture.
Nicola Frangione è un artista poliedrico e sfaccettato, un performer che sperimenta sul palcoscenico la contaminazione di varie tecniche e linguaggi espressivi, dalla poesia alle immagini, dalla musica alla gestualità, tentando un superamento di quelle barriere che solitamente dividono la poesia dalle altre arti performative.
Lucano di origine, vive a Monza, dove porta avanti da decenni un personale e originale lavoro di ricerca nel campo musicale e della poesia, dando da sempre un forte contribuito all'affermazione, in Italia, di questa particolare forma d’arte.
Nella sua performance rapporti orali e trasversalità sonore tenutasi il 4 gennaio al Teatro “La Piccola” di Rionero in Vulture, Frangione ha posto al centro dell’attenzione il corpo, come elemento espressivo fondamentale di quella parola interiore che anima i nostri abissi più inconsci e reconditi
“Il corpo come materia pulsante, come presenza vibrate, come vertigine sensoriale, come nodo inestricabile di misteriose tensioni sa rivelare talvolta quelle voci che animano gli abissi delle infinitudini interiori, esse premono negli alveoli e percorrono gli interstizi risalendo lungo fasci di nervi, affiorano, scabre, da quelle insondabili cavità, dove il flatus si stringe all’anima e con essa si confonde” così descrive la gestualità di Frangione il poeta e performer Giovanni Fontana.
Uno spettacolo che dà “voce” alla parola, quello messo in scena giovedì sera dall’artista, alla parola che diventa azione, consapevole della sua pasta sonora, delle sue rotondità e dei suoi spigoli, alla parola riproducibile e moltiplicabile, esplorata in tutte le sue declinazioni di tono, visive e performative, nel tentativo scardinare il concetto tradizionale di poesia per legarla all’azione, al suono, attraverso la fisicità ambientale e naturale della voce. Ed è in questo processo che il corpo passa da intermediario e diviene oggetto stesso della poesia totale.

“… l’ideale formato della comunicazione sarà la poetica dell’azione
autenticità in funzione per una poesia totale”
(da Introduzione Nomade di Nicola Frangione)

Non solo voce, gestualità, ma anche immagini e musica convergono nella performance di Frangione, in un sottile gioco d’interazione tra parola, gesto e visioni, che ha l’obiettivo di coinvolgere e stimolare il processo intuitivo dello spettatore, creando con esso una circolarità empatica ed emotiva.
Le immagini e i suoni entrano in scena attraverso una videoproiezione che accompagna l’interpretazione partecipata dell’artista lucano. Si tratta di “partiture visive” che vivono in un gioco immaginario e combinatorio di azioni, immagini e narrazioni.
Gioca anche con l’elemento ludico il performer lucano e con una molteplicità di oggetti della quotidianità che si prestano a sfaccettate interpretazioni figurate e simboliche.
L’evento si è concluso con una conversazione “familiare” del pubblico con Nicola Frangione, che ha assecondato le curiosità e le domande dei tanti spettatori presenti in sala ed entusiasti della performance.

by Maria Pina Ciancio

Nicola Frangione
Direttore Artistico del Festival Internazionale di Performance
Art e poetiche interdisciplinari "ART ACTION" di Monza
web-site www.nicolafrangione.it
(foto in alto di Vittoria Pietragalla)

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